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Sabato, 20 Aprile 2024

L'editoriale

Roberta Marchetti

Giornalista

Gli intoccabili "Papà per scelta": usare i bambini per messaggi lgbt va bene?

Bambini e social. O meglio, bambini sui social. Il vaso di Pandora è ormai bello che scoperchiato e ne escono influencer fatti a pezzi. Orde di madri e padri che nascosti dietro al legittimo orgoglio genitoriale hanno dato e continuano a dare in pasto i figli a migliaia - in alcuni casi anche milioni - di sconosciuti, traendo benefici economici oltre che di popolarità. È giusto? "No" è la risposta a cui si è finalmente arrivati dopo anni di foto e video di minori in ogni veste (o senza), grazie anche a vere e proprie crociate portate avanti da associazioni e giornalisti, tra cui Selvaggia Lucarelli - che attacca spesso questa che è diventata un'insana abitudine dei genitori, anche non famosi - in difesa dei bambini e del loro sacrosanto diritto di privacy. Sfoggiarli sui social come trofei, utilizzarli come contenuti, o peggio documentare i loro momenti più intimi fino addirittura a ridicolizzarli (succede anche questo), non solo li espone al pericolo della pedopornografia e dell'adescamento, ma potrebbe ledere la loro immagine in futuro - visto che tutto resta in rete - e senza che loro abbiano mai avuto la libertà di deciderlo. Se lo "sharenting" - ovvero condividere le foto dei propri figli sui social - da un mese a questa parte in Francia è limitato da una legge approvata all'unanimità dal Parlamento, in Italia è ancora totalmente nelle mani dei genitori che troppo spesso continuano a non farne buon uso, nonostante ormai ci sia una consapevolezza diffusa in merito e le critiche sono diventate feroci.

A essere presi di mira, però, sono sempre gli stessi. Dai Ferragnez in giù, a cascata, ecco i vari Di Vaio & family, ClioMakeUp, Beatrice Valli con la quartogenita appena nata e a seguire la valanga di mamme influencer che intasano più o meno i feed di chiunque, promuovendo ogni tipo di brand. C'è una coppia, invece, di cui non si parla mai quando c'è da condannare la monetizzazione mascherata da bella famiglia, la sovraesposizione incontrollata dei minori, e neanche quando si tratta di fare battaglie per salvare i bambini dalle mire mediatiche dei genitori. Loro sono i "Papà per scelta". Anzi, sarebbe più corretto dire gli intoccabili Papà per scelta. Nessuno - neanche la prima citata Lucarelli, molto sensibile alla causa minori e social - si è mai permesso infatti di far notare che utilizzare dei bambini per lanciare un messaggio politico ben preciso è da considerare alla stessa stregua di un dichiarato adv. 

Il caso dei Papà per scelta

Carlo Tumino e Christian De Florio sono una coppia unita civilmente e ricorsa alla maternità surrogata, negli Stati Uniti. Nel 2018 sono nati i gemelli Julian e Sebastian, da lì l'idea di creare un profilo social per raccontare la loro "famiglia tutta al maschile", come è scritto nella bio, "per invertire la narrazione" spiegano in una intervista. Papà per scelta, "diffondiamo cultura sull'omogenitorialità" si legge su Instagram - dove contano 302 mila follower - poco prima del link su cui pre-ordinare il loro romanzo. Su TikTok, invece - 237 mila follower - è possibile pre-ordinare il loro gioco. A proposito della monetizzazione. Ma torniamo al più puro scopo culturale e civile di cui si fanno portavoce (anche se tra un video e l'altro iniziano a spuntare sponsor e contenuti pubblicitari, dall'aspirapolvere più gettonato del momento al famoso formaggio spalmabile con cui preparano le tartine). È giusto utilizzare due bambini di cinque anni (compiuti pochi giorni fa) per fare propaganda? Perché di questo si tratta, per quanto un'affermazione simile potrà risultare "aggressiva" ai diretti interessati. 

La maggior parte dei video pubblicati dai Papà per scelta hanno i figli come protagonisti: dalla colazione alla cena, fino alla buonanotte nel lettone. Julian e Sebastian vengono mostrati in ogni momento della loro quotidianità, sempre felici e consapevoli di avere due papà. Un concetto, questo dell'omogenitorialità, diventato un mantra per i gemelli, ripetuto praticamente sempre. "Sono un bambino molto fortunato" dice Julian davanti allo smartphone puntato in viso. "Perché sei fortunato?" gli chiede uno dei due papà, a cui risponde: "Perché ho due papà". Sebastian, invece, racconta come nasce una famiglia con due padri: "Eravamo delle stelline in cielo, dopo siamo caduti dal cielo e siamo diventati bimbi. A me mi ha preso papà Carlo, a Julian papà Cristian". Scorrendo il profilo, tra i vari e continui "siamo bellissimi e fortunati" - affermazioni che a qualunque genitore risulteranno meno ricorrenti all'interno della routine familiare rispetto a capricci, urla e litigi - si trovano anche ricorrenti videochiamate con "belly mommy", ovvero la gestante che ha portato avanti la gravidanza a Las Vegas. Krista gli fa gli auguri per il compleanno o per Natale, loro rispondono entusiasti e con un perfetto inglese, spazzando via ogni perplessità sulla maternità surrogata. Tralasciando in questa sede qualsiasi legittima opinione sul tema, il nocciolo della questione è uno solo. Julian e Sebastian sono al centro di un costante spot lgbt, dall'omogenitorialità alla gestazione per altri, senza avere la piena consapevolezza di ciò che significa, senza la libertà di essere prima di tutto due bambini, semplicemente, e non "i figli dei Papà per scelta" con tutto il clamore mediatico che ne consegue - scelto dai genitori -, spietati attacchi e sommari giudizi inclusi che a volte prendono di mira proprio loro. 

Non c'è nessuna differenza allora con Leone e Vittoria che sfoggiano i vestiti firmati mamma Chiara Ferragni, né con altri minori che con la loro immagine aiutano a gonfiare il conto in banca dei genitori social addicted. Veicolare un'ideologia attraverso dei bambini non è più edificante rispetto a un'operazione di marketing. Ammesso e non concesso che qui il denaro non sia di casa, o comunque non è il motore principale, il coinvolgimento di minori in una simile battaglia mediatica, esposta a pressioni di ogni tipo, non ha giustificazioni. È necessario parlarne e battersi in prima persona per ottenere diritti che si recriminano? Bene, come del resto è avvenuto per ogni tipo di battaglia, femminista, operaia o lgbt che sia. Che la combattano gli adulti però e non bambini incalzati ad hoc, che avranno tutto il tempo per scegliere se diventare attivisti o no.

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