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Martedì, 16 Aprile 2024

Più rimpatri, ma i migranti restano in Italia: il patto Ue che potrebbe convincere Meloni

Giorgia Meloni potrebbe vincere una battaglia importante in Europa sui migranti. Ma l'Italia potrebbe perdere la guerra di lunga data sulla riforma di Dublino. È quanto emerge con sempre più evidenza dai negoziati serrati in corso in queste ore a Bruxelles in vista del vertice del 9 e 10 febbraio, dove i leader Ue dovrebbero delineare il futuro prossimo delle politiche sull'immigrazione. Il Ppe, il principale partito europeo, ha chiesto a gran voce un codice delle ong e la costruzione di muri alle frontiere. Una coalizione inedita di Stati membri, spesso su fronti opposti su questo tema, ha presentato un documento in cui, oltre ai muri, chiede più rimpatri e accordi con i Paesi terzi in stile 'memorandum con la Libia'. Per la premier, i presupposti per portare a casa un accordo europeo che contenga buona parte del suo manifesto contro la migrazione illegale ci sono tutti. Solo che c'è da sacrificare un mantra della destra italiana (e non solo): la condivisione degli oneri di accoglienza tra gli Stati Ue.

Il regolamento di Dublino

Stando al regolamento di Dublino, a occuparsi dell'accoglienza dei migranti, e delle relative domande d'asilo, deve essere il Paese di primo approdo. Soprattutto dopo lo scoppio della crisi dei migranti del 2015 e del 2016, l'Italia ha cominciato a chiedere con insistenza di cambiare questo regolamento, sostenendo che comporta un peso eccessivo sulle spalle dei Paesi più esposti ai flussi. Il governo di Matteo Renzi fu il primo a battere i pugni a Bruxelles, ottenendo, ma solo in via straordinaria, la ripartizione tra gli Stati membri di decine di migliaia di richiedenti asilo. Il meccanismo provvisorio fu rispettato da quasi tutti i Paesi, a eccezione di Polonia e Ungheria, guidati, oggi come allora, dai principali alleati politici di Meloni in Europa.

Varsavia e Budapest sono sempre state contrarie a qualsiasi obbligo di ricollocamento dei migranti da altri Stati membri, ma non sono state sole: lo si è visto nel 2022, quando sotto la spinta della Commissione Ue, si è provato a rilanciare il meccanismo di ripartizione, stavolta su base volontaria: a firmare l'accordo sono stati 19 governi su 27. Assenti, oltre a Polonia e Ungheria, anche Austria e Svezia. Non che i firmatari si siano impegnati più di tanto a ricollocare i richiedenti asilo dall'Italia: dei 7mila promessi, Germania e Francia ne hanno accolti finora circa 200. Quando lo scorso novembre, la premier Meloni decise di dar vita al pugno di ferro sulla nave Ocean Viking con il presidente transalpino Emmanuel Macron, tra i motivi di contestazione c'era proprio il ritardo di Parigi nei ricollocamenti.

Il non paper italiano

Nel recente passato, la leader di Fratelli d'Italia ha più volte ridimensionato l'importanza della riforma del regolamento di Dublino, forse anche per giustificare l'opposizione dei suoi alleati europei, come il Pis polacco e Viktor Orban. Il suo governo, però, in vista del summit di questi giorni, ha presentato un pacchetto di proposte (non paper, nel gergo burocratico di Bruxelles) basato su quattro pilastri, uno dei quali mira proprio all'equa ripartizione degli oneri di accoglienza: “Le ricollocazioni obbligatorie devono essere il cuore di qualsiasi meccanismo di solidarietà", si legge nel non paper.  

Gli altri tre pilastri della proposta italiana sono gli accordi Ue con i Paesi terzi per aumentare i rimpatri e rafforzare il contrasto alle partenze, più fondi per l'Africa, e un codice di condotta europeo per le ong che fanno ricerca e soccorso nel Mediterraneo. Su questi tre pilastri, il consenso al vertice Ue potrebbe essere largo. Il codice di condotta delle ong è stato preso a modello dal tedesco Manfred Weber, presidente del Ppe. Sui rimpatri, l'Olanda ha chiesto alla Commissione di far leva sui visti per sollecitare i Paesi terzi a riprendersi i migranti. I governi dei 27 hanno già trovato un accordo per aggiungere ai visti anche un'altra sollecitazione, le tariffe agevolate per il commercio: chi non collabora coi rimpatri, verrebbe punito con dazi sulle merci esportate nell'Ue.

I rimpatri come chiave di volta

Il focus sui rimpatri è anche al centro di un'insolita coalizione di Paesi europei (nordici, baltici, meridionali e centrali), solitamente su fronti opposti quando si parla di immigrazione, ma stavolta uniti nel chiedere più protezioni alle frontiere e, per l'appunto, più rimpatri attraverso accordi con Stati extra-Ue. In questa coalizione ci sono Austria, Lituania, Grecia , Lettonia, Slovacchia, Malta e Estonia. Nel loro pacchetto di proposte per il summit di Bruxelles non trova spazio il tema dei ricollocamenti. Un aspetto non da poco, dato che per Grecia e Malta la questione della riforma di Dublino era centrale fino al novembre scorso, quando insieme all'Italia firmarono una dichiarazione congiunta per sollecitare l'Ue a darsi una mossa in tal senso.

Evidentemente, Atene e La Valletta hanno deciso di sacrificare i ricollocamenti per costruire un'alleanza più larga possibile che possa giungere a un risultato sulla lotta contro l'immigrazione illegale. È probabile che l'Italia faccia lo stesso, anche per muoversi in linea con i governi vicini a Meloni, ossia Polonia e Ungheria. Accontentarsi di vincere una battaglia, ma non la guerra, è una strategia che potrebbe attirare la premier per almeno due ragioni. La prima è che, dopo le tensioni diplomatiche con la Francia e le accuse dell'opposizione di avere isolato il Paese in Europa, Meloni potrebbe rivendicare non solo di essere in sintonia con una larga fetta dei colleghi di Bruxelles, ma anche di aver portato l'Ue verso le posizioni del suo governo sui migranti.

Prove di alleanze a destra

L'altra ragione attiene ai movimenti che stanno agitando il futuro delle alleanze politiche a Bruxelles e la corsa alla presidenza della Commissione Ue. Ursula von der Leyen, anche se non lo ha ancora confermato, mira a un secondo mandato nel 2024, quando si terranno le elezioni europee. Quattro anni fa, la sua elezione, sponsorizzata da Macron e frutto di un accordo tra i popolari del Ppe, socialisti e liberali, mise fine al sogno di Weber, candidato ufficiale del Ppe al vertice dell'esecutivo Ue. L'attuale presidente dei popolari non sembra aver abbandonato il sogno, e da qualche tempo non perde occasione per picconare von der Leyen (collega di partito e tedesca come lui). Funzionale a questo obiettivo è anche il rapporto sempre più stretto con i conservatori europei, e in particolare la loro leader, ossia Meloni. Per questo, Weber sta spostando sempre più a destra il Ppe, facendo leva, tra le altre cose, proprio sulla questione migranti. 

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