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Giovedì, 25 Aprile 2024

L'editoriale

Eva Elisabetta Zuccari

Giornalista

Cercare su TikTok una diagnosi per la propria salute mentale

Qualche giorno fa mia zia si è seduta e mi ha detto che era convinta di essere autistica. Improvvisamente, a 57 anni. Un leggero autismo, ha aggiunto col tono di voce un po' più basso, forse sospettando lei stessa che stava esagerando. Eppure, nonostante i suoi stessi sospetti, era convinta: voleva andare a fare un test di verifica. Tutti i sintomi combaciavano, ha aggiunto ancora. Le ho chiesto quali fossero questi sintomi, dove li avesse letti: inutile dire che l'intera sintomatologia elencata era qualcosa di rintracciabile nella persona media. E che se lo era auto diagnosticato su TikTok

Lo sappiamo: partire dal particolare è sempre parziale e insufficiente per spiegare l'universale. Eppure questo caso è abbastanza esplicativo per essere sublimato a simbolo di qualcosa. Questo aneddoto, infatti, contiene tutti i problemi insiti nel modo in cui stiamo parlando di salute mentale sui social da un po' di tempo a questa parte, ovvero da quando - complice la spinta della pandemia, da cui siamo usciti tutti coi neuroni storditi - il benessere psichico è diventato argomento di dibattito sui social network. Questo aneddoto ha in sé tutte le controindicazioni della questione: la banalizzazione dei temi, il pericolo dell'autodiagnosi, l'assoluta mancanza di moderazione tra creator e pubblico, l'opportunismo di certi professionisti del settore che si ridicolizzano nei video di TikTok, ma soprattutto la sottile linea di confine tra la "volontà di normalizzazione" e la sua seconda faccia, ovvero la spettacolarizzazione del dolore, il voyeurismo che s'è creato in alcuni casi attorno alla malattia. Ma andiamo con ordine.

La "normalizzazione" è ormai marketing

Lungi dal mettere in dubbio l'enorme e necessario lavoro che è stato fatto in pochi anni per abbattere uno stigma che durava da secoli, è però ormai chiaro come il dilagare di questa paventata urgenza di "normalizzazione" ha fatto il giro su se stessa, rischiando di banalizzare un tema sacrosanto: non è più sensibilizzazione, bensì in molti casi spettacolarizzazione utile ai propri profitti. Di salute mentale si parla ormai in ogni dove, non averne contezza significa vivere su Saturno, eppure Fedez ancora ci dice che "non se ne parla abbastanza" e dunque ce ne parla, consapevole di cavalcare un tema ormai perfettamente in trend, perfettamente utile al proprio posizionamento. Allo stesso modo, quando Giorgia Soleri, influencer di professione, sostiene di voler andare a Pechino Express "per normalizzare i propri disturbi" e non per assecondare la sua più terrena ambizione di fare televisione (che poi, che male ci sarebbe ad ammetterlo?), il dubbio che si tratti di un alibi più lusinghiero del mero guadagno ci viene. Insomma, il concetto è che l'importante dibattito sulla salute mentale ha ormai fatto il giro, finendo per sminuirsi. Perché niente è più credibile quando diventa ipocrita, quando diventa marketing. E perché ogni fenomeno ha le sue derive. 

Fedez e gli psicofarmaci. Ne parliamo con la Società Italiana di Psichiatria

Gli psichiatri (e gli psicofarmaci) su TikTok 

Eppure, a destare maggiore perplessità, non sono tanto gli influencer che ci parlano di salute mentale con l'obiettivo di migliorare le performance del proprio profilo (a volte persino con l'hashtag #adv), quanto invece quei professionisti della disciplina che, laureatisi ai tempi di TikTok, divulgano a tempo di algoritmo. Passiamo la vita a sentirci dire che farsi la autodiagnosi su Google è il male, passiamo interi appuntamenti col nostro medico di base a coprirci il capo di cenere nell'ammettere che sì, abbiamo googlato la nostra diagnosi, eppure è davvero tanto facile, poi, scivolare in innumerevoli video di psicologi e psichiatri che discettano via social delle dosi di uno psicofarmaco. Ed è vero, molti di loro premettono di rivolgersi al proprio medico e di non affidarsi mai al fai da te, ma ci sono due domande evase: la prima è come fa un utente medio a distinguere tra un professionista e un santone ciarlatano (chiedo per mia zia, per l'appunto); la seconda è da dove prendere la certezza che un paziente, in un momento di assoluta fragilità, non ceda ad assecondare i consigli che gli piacciono di più, ovvero quelli di TikTok e non quelli scritti sulla ricetta medica. Altrettante perplessità riguardano poi il tono di voce, la miniaturizzazione di una divulgazione estremamente personale e complessa, il modo caricaturale con cui si tratta l'intimità dei propri pazienti. Alla faccia della privacy, verrebbe da dire, se proprio volessimo dirla come direbbe un'altra mia zia.  

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@francescabeccu.psy

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Dall'empatia al voyeurismo

La storia si fa ovviamente più complessa quando accoglie tra i suoi protagonisti i minori. E, guarda un po', TikTok è popolato proprio dagli adolescenti. Grazie alla possibilità che i social danno di raccontare la propria vita come fosse un reality show, infatti, sempre più ragazzi confidano la loro personalissima battaglia un video dopo l'altro. Un modo positivo e meraviglioso di fare comunità, di elaborare la malattia, di esorcizzare, di normalizzare appunto, ma al contempo va ricordato che il racconto in prima persona non possiede i filtri della competenza: il rischio è scivolare nella gaffe della stessa Giorgia Soleri, influencer che quest'estate pubblicò la lista degli psicofarmaci che prendeva, attirandosi critiche di emulazione; il rischio è scivolare dall'empatia al voyeurismo, come nel caso di Leila Kaouissi, malata di dca e depressione, quotidianamente al centro del fuoco incrociato di mezzo milione di follower e haters, ovvero quotidianamente cliente di un algoritmo famelico che monetizza sulla sua malattia.

Giorgia Soleri-13

L'autodiagnosi. La terapista: "È come se io, professionista, fossi in competizione con i tiktoker"

Proprio di questo tema, ovvero di adolescenti che scelgono di credere a TikTok piuttosto che a uno psicologo, ha parlato di recente la terapista Annie Barsch al New York Times: "È quasi come se io, come professionista - con un master, una licenza clinica e anni di esperienza - fossi in competizione con i tiktoker", ha dichiarato. Sebbene infatti la circolazione di informazioni possa aiutare a dare un nome ad un malessere magari mai verbalizzato, il rischio è quello di etichettarsi in modo errato, di fissarsi su diagnosi proprie, oppure di aspettare per questo a chiedere aiuto. Non è difficile infatti incappare in video del tipo "i tre sintomi del disturbo borderline", "abbassa un dito se hai almeno uno di questi sintomi di depressione", né convincersi di soffrire di un disturbo post-traumatico da stress solo perché si è disordinati cronici.

Che sempre più adolescenti si auto diagnosticano disturbi su TikTok lo dice uno studio dell'Università di Toronto: i medici, si legge, dovrebbero essere consapevoli dell'ampia diffusione della disinformazione sanitaria sulle piattaforme e del suo potenziale impatto sull'assistenza clinica. Le "tecniche" diagnostiche dell'algoritmo non sono infatti guidate da regole etiche cliniche o dai criteri del DSM-5, bensì dal tempo di visione di un video: più tempo ti soffermi a guardarlo, più spesso la piattaforma ti mostrerà video simili. Personalmente, ad esempio, mi è bastato cercare "depressione" un paio di volte per ritrovarmi svariati contenuti sul tema: un effetto "tana del coniglio" che più volte l'app ha più volte respinto pubblicamente. Così come di recente ha respinto i risultati di uno studio che suggeriva come, entro 30 minuti dalla loro adesione alla piattaforma, aivenissero mostrati contenuti legati a disturbi alimentari e all'autolesionismo.

"Oggi è moda diagnosticarsi disturbi mentali". Tutto chiede salvezza

Sempre la dottoressa Hawkins, sottolinea poi un altro tema che riguarda il figlio 16enne: tra i suoi coetanei è diventato di moda identificarsi con un disturbo di salute mentale; per loro, ha aggiunto, è considerato un tratto della personalità piuttosto che qualcosa da cui guarire. "Fino a poco tempo fa i disturbi mentali erano il tabù dei tabù, nessuno diceva di averli e chi ce li aveva li nascondeva. Oggi è diventata quasi una moda auto diagnosticarseli ed esibirli. Ma non c’è niente da esibire", ha spiegato in questi giorni alla Stampa Vincenzo Villari, responsabile di Psichiatria all’ospedale Molinette di Torino (che però ha anche segnalato un effettivo aumento di problemi di ansia e depressione nei ragazzi). "I bambini - ha dichiarato ancora il dott. Prinste, chief science officer dell'American Psychological Association - sono alla ricerca di una comunità e stanno usando la loro attuale lotta con i sintomi della salute mentale come un modo per trovare persone che la pensano allo stesso modo, a volte indossando i loro sintomi come segno di orgoglio o un modo abbreviato per spiegarsi agli altri". 

Ma "non hai davvero bisogno di avere un disturbo di salute mentale per soffrire", ha scoperto Kianna, adolescente di Baltimora che su TikTok si era diagnosticata un disturbo di depersonalizzazione poi smentito dalla sua terapista, "tutti hanno però bisogno di supporto emotivo". Tutto chiede salvezza. 

La "salute mentale" sui social: benefici (e rischi) del trend che vuole abbattere i tabù

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