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Giovedì, 28 Marzo 2024

L'editoriale

Eva Elisabetta Zuccari

Giornalista

Scemi noi se ci stupiamo del monologo di Chiara Ferragni

Autoreferenziale e mediocre nella scrittura. Queste le due critiche mosse a Chiara Ferragni nel merito del suo prevedibilissimo monologo portato a Sanremo e dedicato all'empowerment femminile, sull'onda di una tematica che l'imprenditrice digitale fa propria ("cavalca", diranno i più maliziosi) da anni. Ma il problema è tutto nostro, non tanto di Ferragni. Perché altro non potevamo aspettarci. E, non a caso, i numeri raccontano che il suo intervento - ben condito da geniali happening d'abito che non si vedevano dai tempi di Achille Lauro -  ha funzionato. Sia in termini di ascolti tv che come sentiment della rete, che è perlopiù positivo.

Essere autoreferenziale è infatti quanto serve ad un influencer, che non ha altre doti per definizione. "Non so cantare, non so ballare, sono qui per portare il mio messaggio" ha detto lei, perfettamente consapevole di sé e dei suoi limiti televisivi, almeno quanto dovremmo esserlo noi. Lei che è stata apripista di un'epoca, quella della vita raccontata come un reality show su TikTok, in cui la fame di riconoscibilità è tale da farci credere che il talento non serve più, è un surrogato: basta essere se stessi per poter inventare un'epica attorno alla proprio banalissima vita, in stories da trenta secondi. E no, questo non è un discorso da boomer, né una demonizzazione aprioristica dei social: è perplessità. Proprio l'altro giorno infatti ascoltavo lo sfogo di una bravissima creator (così sì chiamano gli influencer della generazione z, perché dire influencer è ormai banalizzante), che di professione è imitatrice, mentre piangeva chiedendo alle migliaia di follower: "Ma perché amate le mie imitazioni e non cominciate ad amare un po' ciò che sono?". Insomma il talento è secondario, quello che è sufficiente è il "sestessimo", la retorica attorno alla autenticità che invade l'immaginario da tempo: da quando hanno chiuso dieci sconosciuti in una casa di Cinecittà. Peccato però che uno non vale uno, e non tutti siamo Chiara Ferragni: lei un talento ce l'ha e ci ha fatto i miliardi. Occhio a non confondersi. 

Tornando a Ferragni: scemi noi a stupirci, si diceva. Passiamo la vita a guardare la sua vita, non scovandole alcun talento se non quello di lasciarle monopolizzare l'economia della nostra attenzione, e poi ci stupiamo che sul palco non porta argomenti altri rispetto alle fotine di sé e dei suoi inflazionatissimi bambini dai riccioli d'oro. Scemi noi a stupirci, vista l'era in cui viviamo. Quella in cui persino l'attivismo, che di per sé è concetto comunitario, è diventato in realtà qualcosa di autoreferenziale. Lungi dal voler criticare infatti Chiara - il cui "Pensati libera" mi ha personalmente emozionata - non deve però stupire l'approccio egoriferito dell'influencer, anzi dell' "attivista influencer" (o "influ activist", li chiamano in inglese) che, proprio per lavoro, fa autopromozione di se stessa, attivismo compreso. Può sembrare un controsenso, può sembrare che questo va a scontrarsi, almeno in astratto, con la natura collettiva delle cause sociali, ma alla fine a salvare la baracca ci pensa la buona fede da cui tutto è mosso. Ha un nome: si chiama "personal branding". 

Vendesi ideali (su Instagram). Processo alle intenzioni degli influencer, anzi attivisti, anzi imprenditori

Altra critica mossa a Ferragni, si diceva, è la bassa qualità della scrittura. Una qualità così bassa che la frase pronunciata da Amadeus al termine dell'intervento ("voglio sottolineare che lo ha scritto tutto da sola e non ha avuto autori") è suonata non tanto come un elogio alla dedizione dell'influencer quanto come un volersi cavare da qualsiasi responsabilità. Qualcuno in conferenza stampa ha parlato di "tema di terza media". Un'amica su WhatsApp mi ha scritto che l'intervento sembrava scritto da ChatGPT. Ovunque insomma il j'accuse è di banalità. (E qui, nota a margine, c'è da fare un autocritica: continuiamo ad affidare il dibattito intellettuale agli influencer e poi ci lamentiamo che non sono Nietzsche. Saremo forse noi il problema?)

Eppure, come ben detto da Serena Bortone su Rai Uno, quella di Chiara altro non è che "banalità del bene", parafrasando un libro di Edoardo De Aglio. Essere dotata di mediocrità nella comunicazione (e magari non nell'intelletto) è infatti - anche questo - ciò che viene richiesto ad una influencer. Che, anche nel più benintenzionato del "purché se ne parli", fa comunque arrivare un sacrosanto messaggio di autodeterminazione a qualsiasi fascia di pubblico, anche quello che ha meno tempo da spendere nella auto riflessione. E qui il pensiero va ad Umberto Eco (il Dio delle citazioni mi perdoni) e alla sua storica fenomenologia del successo di Mike Bongiorno, che lo scrittore descrisse come "un uomo che, nella sua infinita “medietà”, mette a proprio agio quello che è lo spettatore medio". Ebbene, Chiara è altrettanto media: la moneta con cui compra la nostra attenzione è proprio l'immedesimazione, il sogno che ci vende nel prometterci che possiamo diventare come lei. La conclusione è: senza mediocrità nella comunicazione, senza immedesimazione, la comunicazione fallirebbe. 

(Che poi - nota a margine - se proprio dobbiamo parlare di banalità, viene da chiedersi cosa c'è, nel monologo di Chiara, di più banale di quanto già non ascoltiamo ogni sabato nelle lettere dei contenitori di emotainment come C'è Posta per Te)

Chiara Ferragni non è altro che Chiara Ferragni

Ferragni, insomma, non è stata altro che Ferragni. E non potrà essere altro che Ferragni. Per grande delusione di chi cercava in giro un nuovo pensatore. E lo racconta anche l'incapacità - o la mancata volontà - di andare fuori dal suo seminato. È interessante infatti confrontare la differenza d'approccio tra ciò che è stata in conferenza stampa ieri mattina e ciò che è stata sul palco ieri sera. La differenza tra le due Chiare mi ha stupito. Da una parte una Ferragni intimorita dalla platea dei giornalisti (e confortata da un abbraccio intenso del direttore di Rai Uno Stefano Coletta); dall'altra la disinvoltura con cui si è mossa tra palco e retropalco durante la diretta, tra un "Ama" e "Fiore" come se i conduttori fossero cugini di primo grado. Un motivo, tra tanta distanza, c'è. 

Incalzata su domande che andavano fuori dalla sua comunicazione blindata e da sempre autogestita (poche le interviste rilasciate negli anni, e sempre accomodanti), è parsa nervosa: è successo ad esempio quando le hanno legittimamente domandato della vecchia misoginia di Fedez. Solo una volta arrivata sul palco, è tornata lei. È tornato il suo sorriso, il suo dizionario fatto di "super", gli stessi escamotage d'abito già visti al matrimonio (i messaggi cuciti sul vestito, ad esempio), la sua tenerezza, che in fondo male non fa, per carità. È tornata a raccontare se stessa. È tornata al selfie.

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