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Giovedì, 25 Aprile 2024

Charlotte Matteini

Opinionista

Diciamo la verità: a noi piace essere sfruttati

L’Italia ha un problema con il lavoro. E no, il problema non è che “i giovani non hanno voglia di lavorare”, come si sente spesso dire in tv. No, il problema sono i salari irrisori, uniti alle pessime condizioni professionali proposte da molte realtà aziendali, piccole o grandi che siano. Stipendi irrisori, contrattualizzazioni estremamente creative che si discostano non poco da quanto previsto dai ccnl di riferimento - se non addirittura totalmente assenti - straordinari pretesi e spesso nemmeno retribuiti, ricorso sfrenato allo strumento dello stage extracurricolare per “assumere” persone con esperienza pregressa senza però dover corrispondere il giusto compenso.  

Queste sono le caratteristiche di numerose offerte di lavoro facilmente reperibili in Italia, in settori vari e variegati. E non è nemmeno raro, per giunta, trovare proposte di lavoro totalmente in nero con vere e proprie paghe da fame, da 2/3 all’ora o, nei casi più fortunati, regolarizzate solo parzialmente. Il risultato è che, soprattutto in certe zone d’Italia, dove l’incidenza del lavoro nero e irregolare sfiora il 40%, trovare un lavoro a condizioni dignitose diventa una vera e propria impresa.  

"È la gavetta bellezza"

Dal commercio alla ristorazione, passando per la logistica, la moda, la comunicazione, il fenomeno è così diffuso che tocca trasversalmente tutti i settori. Così diffuso che, incomprensibilmente, a un certo punto, è diventato la normalità. Talmente una costante, da essere addirittura difeso da molti lavoratori che, senza troppi giri di parole, sostengono sia giusto lavorare 60/70 ore a settimana per 700 euro al mese. “Si chiama gavetta”, ripetono in coro, arrivando a giustificare comportamenti anche penalmente rilevanti, nel caso di proposte di lavoro in nero che non rispettano alcun tipo di prescrizione della normativa vigente.  

Da qualche mese rilancio quotidianamente sui social annunci di lavoro che propongono condizioni totalmente irregolari. A ogni tornata, mi ritrovo subissata da centinaia e centinaia di commenti che difendono il diritto dell’imprenditore a proporre ciò che vuole. “Se non ti va bene, non accettare”. Oppure: “Inutile lamentarsi, se hai bisogno lavori anche a quelle condizioni”, senza minimamente prendere in considerazione un elemento piuttosto fondamentale: esistono delle leggi a tutela del lavoratore che chi fa impresa è tenuto a rispettare. In questo Paese, invece, si sta diffondendo sempre di più l’idea che un imprenditore sia un benefattore a prescindere, qualsiasi cosa proponga. Anche se propone condizioni che non si discostano molto da quello che la legislazione di qualsiasi Paese civile definirebbe schiavismo. Non viene preso in considerazione il fatto che lo sfruttamento dei lavoratori è a tutti gli effetti un reato.  

Se non ti sacrifichi abbastanza, non hai voglia di lavorare

Molto spesso chi difende queste condizioni incivili è stato a sua volta sfruttato nella stessa maniera, arrivando in qualche modo a credere che questa sia la giusta via “per farsi le ossa” e diventare dei bravi professionisti. Secondo un recente rapporto della Fondazione Migrantes, dal 2006 a oggi sono emigrati all’estero 5,8 milioni di italiani. Circa il 36% sono giovani under 34, oltre il 40% partono dal Sud, da zone dove gli stipendi sono notevolmente inferiori rispetto alla media nazionale ma soprattutto europea. Sono tantissimi i connazionali laureati che ogni anno emigrano nella speranza di poter lavorare nell’ambito per cui hanno studiato con una retribuzione dignitosa, ma altrettanti partono per fare i camerieri, i baristi, i cuochi, i lavapiatti, i tuttofare, gli addetti alle pulizie e chi più ne ha più ne metta. Perché? Perché, per esempio, negli altri Paesi europei esiste il salario minimo orario che permette di retribuire in maniera dignitosa tutti i lavori, anche quelli più umili.  

In Italia, invece, il lavoro è considerato un sacrificio, ma soprattutto un costo da comprimere il più possibile e non investimento necessario a far crescere la propria attività. Se non sei pronto a sacrificarti abbastanza, allora significa non hai voglia di lavorare. E non conta che le condizioni proposte da certi imprenditori o esercenti siano totalmente illegittime, se non accetti sei uno scansafatiche che vuole stare sul divano a percepire il reddito di cittadinanza. È una questione culturale, una mentalità tossica estremamente diffusa che non ha eguali in Europa e che sta sempre più trascinando il Paese in una spirale recessiva che ha come conseguenza la compressione di diritti e salari dei giovani e dei meno giovani.  

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