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Sabato, 20 Aprile 2024

L'analisi

Alessia Capasso

L'Inter sfida (ancora) il divino Pep. E se Davide fregasse Golia?

"E per la gente che...ama soltanto te...Per tutti quei chilometri che ho fatto per te...Internazionale devi vincere". Canta così uno dei cori di più recente conio intonato dai tifosi nerazzurri. Di chilometri questa Inter ne ha fatti tanti, inaspettatamente. A inizio stagione è volata a Monaco dall'implacabile Bayern (due sconfitte contro i tedeschi), poi al Camp Nou dove ha strapazzato il Barcellona in un rocambolesco pareggio, passando per il campo del Viktoria Plzen, dove ha vinto agevolmente. Superata la fase a gironi al secondo posto, dal cilindro degli scontri diretti sono uscite due portoghesi. Prima la trasferta nell'ostica Porto, dove ha incontrato la squadra arcigna e muscolare di Sergio Conceiçao, messa a tacere grazie ad un solo goal in 180 minuti. A seguire Lisbona, dove si è imposta per due a zero contro un Benfica che fin lì aveva fatto benissimo, ma che si è scoperto troppo contro la compagine della Beneamata. Infine il derby, temuto e attesissimo, contro un Milan mai parso all'altezza della duplice sfida. La prossima ed ultima tappa sarà Istanbul. Si potrà ancora chiedere ai giocatori di "dover vincere", quando l'avversario è il Manchester City di Josep Guardiola?

Avversario scultoreo

Stavolta la danno tutti per spacciata la squadra nerazzurra. Bookmakers, tifosi di tutto il mondo, cronisti sportivi e gufi bianconeri. Il City è stato modellato da Pep in sette anni, quasi sempre trionfali (in Premier) e con amare delusioni (in Champions). Come uno scultore maniacale, l'ex centrocampista di Barcellona e Brescia, già tre volte vincitore della coppa dalle grandi orecchie con i colori blaugrana (una da giocatore e due da allenatore), ha puntellato anno dopo anno quella macchina perfetta che aspirano ad essere le sue squadre. Capaci di vincere di supremazia, dominando con ricami geometrici e a tratti spettacolari il terreno di gioco. Insieme allo "spazio", Guardiola ha trovato il suo vero attaccante. Il norvegese Haaland incarna il profilo top di questo ruolo: vecchio stampo nella stazza e contemporaneo nei movimenti, vorace sotto porta e generoso coi compagni all'occorrenza. La ciliegina sulla già ricca torta dell'allenatore catalano.

Altalene

Com'è invece questa Inter, che tutti danno destinata a soccombere prima ancora di scendere in campo? Talvolta micidiale, come in tutti i derby di questo 2023, ma troppo altalenante nella resa, divisa tra le dodici sconfitte in campionato e un bel percorso internazionale. Lucida in coppa, dall'approccio superficiale e dalle finalizzazioni monche nelle tante occasioni sprecate contro le "grandi" nel 2022 e contro le "piccole" in questo scorcio di 2023. È nelle partite secche che l'Inter si esprime al meglio. Centrata, compatta in difesa e quando rimane senza palla; rapida e coordinata quando si invola in attacco. Troppo poco, si mormora, rispetto alla corazzata britannica alimentata dal portafoglio saudita.

Mister all'improvviso

Sulla panchina nerazzurra, che spesso ha traballato, artefice (o succube) di queste due annate dai contrasti forti siede il signor Simone Inzaghi da Piacenza. Per una vita fratello minore di Pippo, già eroe della sponda milanista e juventina. Lui, Simone, attaccante invece alla Lazio, ma senza le glorie né i titoli da Super attribuiti al fratello. Da allenatori invece carriere finora ribaltate. Pippo relegato in B, con le esperienze in A mai esaltanti con Milan, Bologna e Benevento, mentre per Inzaghino zero gavetta fuori dalla serie maggiore e una parete già ricca di vittorie. Lo promosse a sorpresa Claudio Lotito, quando il veterano e visionario Marcelo Bielsa mollò d'improvviso i biancocelesti poco dopo l'investitura sulla loro panchina. Dopo aver allenato la primavera e qualche partita in A sul finale di stagione, Simone si ritrovò d'improvviso sul terreno di gioco degli adulti. Signore di coppe (vedi alla voce "tituli"), colpisce talvolta di spada, altre di Bastoni, ma sono i denari (assenti) dell'Inter ad averlo sospinto in nerazzurro. Alla notizia della chiusura delle casse di Suning, Mr Conte, uno che vuol mangiare ed allenare solo dagli stellati, fuggì portandosi via svariati milioni di buonuscita. In soccorso arrivò lui: Simone. Il profilo perfetto di allenatore aziendalista (per cui ero convinta sarebbe finito alla Juve). E in effetti è stata la componente "gobba" di Appiano Gentile, incarnata da Marotta, a volerlo a Milano. E se Lotito non voleva lasciarlo partire, il piacentino aveva invece voglia di spiccare il volo sapendo di aver dato tutto alla sponda biancoceleste di Roma. Fu così che l'Aquilotto abbandonò l'Olimpico per atterrare alla Scala del calcio.

Oltre gli auspici

Era arrivato senza fanfare, quando Suning aveva già scoccato verso Parigi la freccia dell'eccellente Hakimi. Tra sorpresa e delusione, dopo l'approdo del nuovo allenatore aveva deciso di far le valigie anche Romelu Lukaku, l'autoproclamatosi re di Milano scappato a Londra. Sembrava una stagione nata sotto i cattivi auspici, ma Inzaghi junior si è dimostrato nel tempo più forte dei presagi. È uno che non ha mai chiesto ai cinesi di spendere, sapendo invece (e)spandere, seppur solo a tratti, le ambizioni nerazzurre. Alla fine della prima stagione si è portato a casa un secondo posto, una Coppa Italia ed una Supercoppa, con annessa qualificazione alla Champions. Bilancio simile nella seconda (terzo in campionato), con in più una finale di prestigio da disputare. "Con quella rosa avrebbe potuto fare di più", si vocifera tra tifosi e media. A star seduti sul divano anziché sulle panchine si perde talvolta la misura del concreto in favore dell'utopia.

Fenici e puma

Tra assenze, partenze annunciate e infortuni la squadra si è ricompattata nel finale di stagione. Quest'anno il colosso belga era rientrato in prestito, chiedendo di essere accolto nuovamente nella grande famiglia interista, dopo gli screzi con Tuchel e i deliri accaparratutto del Chelsea. Romelu l'ingrato si è così vestito da figliol prodigo. In questa seconda vita nerazzurra, partita con un lungo infortunio, si è riscattato a suon di goal e assist solo nell'ultimo rush di campionato. A sostituirlo ci ha pensato l'ex-Roma Edin Džeko, l'attaccante anomalo che pensa (e si muove) da centrocampista. Grazie all'impiego sapiente di Inzaghi, più che il cigno di Sarajevo, il bosniaco è parso spesso una fenice. Anche dalle ceneri sa far nascere goal. Dalla sponda giallorossa è arrivato anche l'armeno Mikhitarian, che alla faccia della geopolitica fa coppia perfetta col turco Hakan Çalhanoğlu, il trequartista scartato dal Milan, che da classico ex ha punito in più di un'occasione i rossoneri. L'affinità tra i due è stata tale da far mettere in disparte (al netto degli infortuni) persino quel Marcelo Brozovic che, a partire da Spalletti in poi, era diventato il perno del gioco interista. Altro bacino di riferimento del mister è quello laziale. Dopo l'acquisto dell'indolente Correa, i tifosi temevano che anche quello ad Acerbi sarebbe stato un "regalo" ad uno dei suoi fidati aquilotti, a prescindere dalle prestazioni. Il difensore si è invece dimostrato solido e duttile, sostituendo al meglio l'olandese De Vriji in netto calo dopo lo Scudetto. Un'evoluzione da pedina a pedone. Tra i pali Simone si è affidato alla scommessa André Onana, il camerunese che ha scalzato il pilastro Samir Handanovic grazie ad un ottimo controllo coi piedi e ai balzi da puma ai quali lo sloveno preferiva ormai le "parate laser". Un portiere un po' sgraziato nel fisico ma dagli interventi efficaci e via via più sicuri.

Perle

Dai gusci di ostriche che parevano vuote, Inzaghi ha tirato fuori altre due perle. Una è Federico Di Marco, che l'Inter aveva richiamato a casa dopo averlo lasciato altrove a metter su muscoli e corsa. Dna nerazzurro, aizzatore di popolo e macinatore di chilometri dal sinistro elegante, ha contribuito con goal e assist preziosi. L'altra è la trasformazione di Matteo Darmian. Da "spingitore" sulla fascia a spina nel fianco degli attaccanti avversari, scalato dal centrocampo a 5 al braccetto di destra di una difesa a tre orfana di Skriniar. Lo slovacco è stato colpito nel fisico dal mal di schiena e nell'animo dalle sirene saudite del Psg. Le ha preferite ai cori della Nord, che lo invocavano come leader nerazzurro indiscusso. Partirà a fine stagione, ma a questo punto senza tanti rimpianti se non per una pessima gestione aziendale. A premiare le idee del piacentino le incursioni del mai domo Barella e soprattutto le incornate del Toro. Lautaro Martinez è tornato dai mondiali da campione del mondo, ma aveva giocato poco e senza incidere da protagonista. Ha portato in campo la maturità di uno che ha vissuto le fatiche e il trionfo del gruppo argentino, abbinata ad una gran voglia di rivalsa.

La fionda di Davide

Ai microfoni del post-partita Simone risponde senza mai guardare la telecamera, gli occhi e la testa ondeggiano di continuo. Elogia i suoi anche quando di pubbliche strigliate ce ne vorrebbero. Li ringrazia sempre per la prestazione con quel suo vocione che si immagina uscire dall'ugola di un gigante. Proviene invece da un viso minuto e quasi sempre composto, che non fa sospettare il metro e ottantacinque del mister. Ha allenato tutto l'anno avendo sospesa sul capo la spada di Damocle da perenne esonerato, salvato dai risultati inaspettati in Europa e da altri due trofei messi in bacheca. Certo Inzaghi non ha l'appeal di José Mourinho, trionfatore con i nerazzurri dello storico Triplete, né l'arroganza (per fortuna) di un Max Allegri, per il quale la coppa è rimasta un'ossessione. Simone non seduce con la risata beffarda di Jurgen Klopp, trionfatore col Liverpool e che lo scorso anno il piacentino ha battuto ad Anfield. Neppure ha il rigore teutonico di Tuchel, che a sorpresa la strappò proprio al Manchester City per consegnarla ai tifosi del Chelsea. Soprattutto non ha i numeri né l'aura di cui gode da anni il divino Pep. Ha dalla sua in compenso giocatori che hanno promesso di dare l'anima ad Istanbul. Da crederci, perché per la prima volta da anni chi scende in campo è anche tifoso, come i vari Di Marco, Bastoni e Barella, forgiati nello spirito dalle imprese del passato, come quando Milito, Cambiasso & co. ribaltarono in semifinale di Champions proprio il Barcellona allenato da Guardiola. Quest'anima nerazzura è forse la vera arma in più, la fionda di Davide che potrebbe colpire il colosso Golia-City. Siamo onesti. L'Inter va a giocarsi una finale che nessuno si aspetta che vinca. Più che una condanna, fatti gli opportuni scongiuri, potrebbe rivelarsi una benedizione.

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