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Giovedì, 28 Settembre 2023

Libertà di uccidere

Fabrizio Gatti

Direttore editoriale per gli approfondimenti

Ammazzare a calci una capretta e filmare tutto per i social

L'ultima frontiera della violenza ripresa da uno smartphone: uccidere a calci una capretta e filmare la bestialità umana. Ne abbiamo fatta di strada. Era il 1986. Radio radicale aprì i suoi microfoni agli italiani, offrendo la possibilità di registrare un messaggio da trasmettere senza censure. Finirono in onda bestemmie, inni al fascismo e insulti razzisti da nord a sud: gli immigrati allora erano soltanto nostrani. I libri di antropologia raccontano che durante una spedizione su un'isola sperduta, i ricercatori scoprirono una popolazione ferma all'età della pietra. Gli scienziati invitarono uno di quegli uomini seminudi sul loro piccolo aereo. E lui si presentò alla partenza con una manciata di grossi sassi da lanciare sul villaggio rivale: davanti a quell'uccello con elica e motore, la sua mente aveva fatto un salto immediato di cinquemila anni, dal neolitico al bombardamento a tappeto.

È di fronte alle innovazioni improvvise che spesso l'immaginazione mostra l'indole peggiore dell'umanità. Succede quando l'evoluzione tecnologica non viene accompagnata da una lenta maturazione etica e culturale. Ora tutti noi siamo come quell'uomo sull'isola sperduta: il progresso da un giorno all'altro ha infilato nelle nostre tasche uno strumento diabolico in grado di fotografare, filmare e connettersi in un istante con il resto del mondo. Capace, cioè, di catturare qualsiasi attimo della vita privata di una persona e trasformarlo per sempre in un evento virale.

La dipendenza da connessione

Lo smartphone è un'invenzione straordinaria: ci mette in collegamento con la conoscenza, la musica, l'arte, l'informazione, gli amici e il suo uso propriamente telefonico costituisce soltanto una minima parte delle funzioni possibili. Ma di fronte a questa immensa libertà siamo ancora all'età della pietra. Lo sono soprattutto i nostri figli, o almeno una buona parte di loro, che sconta le crisi del nostro tempo, tutte insieme: la dissoluzione del futuro nel presente continuo dei social media, l'incapacità di gestire le proprie responsabilità, la dipendenza dall'abuso di connessione e, molto spesso, dal contemporaneo uso di sostanze come alcol e droghe. Poi, su tutto questo, pesa la disgregazione della famiglia come luogo e modello educativo.

La sequenza in cui la capretta viene lanciata oltre un parapetto (FrosinoneToday)

Avete mai visto in pizzeria un tavolo di quattro persone, papà, mamma e due figli, avvolto dal silenzio? Ciascuno con gli occhi incollati al proprio smartphone. C'è da sperare che almeno stiano chattando tra di loro. Ma non è così. E ormai accade anche tra gruppi di amici, o coppie di fidanzati. Tutti in silenzio e il loro pollice che scivola sullo schermo.

Così hanno ucciso la capretta: il video shock - di Angela Nicoletti

Gli adolescenti, spesso fin da bambini, di fronte ai nuovi obblighi etici, imposti dagli immensi orizzonti della rete, sono come gli italiani liberi di parlare alla radio negli anni Ottanta: analfabeti. Non hanno nessuno che li educhi, mostri loro lo spreco dell'abuso e gli enormi benefici del buon uso. Ma almeno la radio di allora era uno strumento passivo. Oggi è invece il mezzo a orientare usi e abusi: attraverso algoritmi e intelligenze artificiali, stimola e premia con visualizzazioni, like, condivisioni, popolarità e magari soldi i video più folli, più assurdi, più pericolosi, più stupidi. E anche se gli algoritmi delle piattaforme occidentali hanno ora un freno, ci sono sempre la libertà alla cinese di Tiktok, le chat private di Telegram e dei suoi simili, oppure la navigazione clandestina nel dark web.

In trance davanti ai video

I video di maggior successo hanno una loro grammatica. Sono rapidi, non spiegano il contesto, le contraddizioni, il rischi collaterali. Usano una lingua veloce, colori abbaglianti, ritmi che rapiscono l'attenzione quasi a livelli di trance. Lo capisci quando provi a togliere o a ridurre l'uso del telefonino a un adolescente o a un bambino. Diventano irascibili, non sanno più come riempire il loro tempo, riattaccano lo sguardo allo schermo non appena hanno un minuto di libertà, o addirittura mangiano senza distogliere gli occhi dal tamtam di immagini e suoni. Sotto questo bombardamento, i loro neuroni devono certamente sentirsi bersagliati e appagati come il cervello di Timothy Leary, il controverso psicologo americano, studioso, promotore e consumatore di droghe psichedeliche.

Da un pezzo non siamo più Homo sapiens. Ma abbiamo già superato l'Homo videns, teorizzato dal sociologo Giovanni Sartori. Almeno la generazione della tv faceva capo a un palinsesto, riferibile a editori e direttori che avevano nomi e cognomi e responsabilità penali e civili di fronte alla legge. Il linguaggio digitale dei nostri figli, che mescola immagini, testi, suoni e interazioni ventiquattro ore su ventiquattro, è una nebulosa globale di cui nessuno si assume la paternità. Al massimo c'è un nikname, un soprannome, un marchio e magari un server in paradisi irraggiungibili. Mentre il linguaggio dei genitori, se ancora esiste, è monofonico, soltanto verbale, fondato sull'esperienza personale che ha radici nel vecchio mondo analogico. Sempre che mamma e papà non siano a loro volta smartphone dipendenti. E quindi ormai fuori gioco.

Una scena del film 1984 di Michael Radford (foto Wikipedia)

Se confrontiamo la quantità di tempo in cui adolescenti e bambini sono connessi alla rete con il tempo dedicato a noi genitori (e viceversa), dovremmo infatti concludere che gran parte di loro sono soltanto figli biologici: la loro formazione mentale è già stata delegata a una molteplicità di entità sconosciute. Lo schermo interattivo immaginato da George Orwell nel suo romanzo 1984 (nella foto sopra, una scena del film di Michael Radford) è entrato nelle nostre case in versione tascabile. Ma senza più un grande fratello contro cui ribellarci: perché il grande fratello siamo diventati noi. Soprattutto la massa di servitù digitale, che non si rende conto di essere ormai il terminale biologico al servizio di un organismo globale senza cervello, né regole umane, né etica. E nemmeno un cuore.

Le foto a un uomo che muore

Appartengono a questa servitù i testimoni di un incidente stradale che invece di dare l'allarme o prestare soccorso, estraggono il telefonino e riprendono un uomo che brucia accanto all'auto in fiamme o i feriti sdraiati a terra. Gli adolescenti della Roma bene, che corrono a 120 all'ora in città per una sfida sui social e uccidono Manuel di 5 anni (foto sotto). I criminali che a Palermo hanno violentato una ragazza e vicino a Napoli due bambine e le avrebbero filmate. Potremmo andare avanti con le moto impennate nel traffico, le bravate suicide, risse, pestaggi, omicidi, femminicidi. La cronaca di questi mesi.

Gli omaggi a Manuel, 5 anni, ucciso da un Suv durante una sfida sui social (foto Nicolò Zambelli-Today.it)

Nel villaggio globale in cui viviamo, la brutalità spavalda di certi video diventa il collante tra le persone più vulnerabili. Primi fra tutti, appunto, gli adolescenti. Loro la subiscono, provando così un senso perpetuo di insicurezza, come se riguardasse sempre il quartiere in cui abitano, che è appunto il quartiere digitale. Oppure la imitano, in una competizione infernale con il resto del mondo, alla ricerca dell'azione, del gesto, del momento che possa diventare virale. E questa convivenza continua con la violenza, una volta che esce dalla rete, non fa differenza tra famiglie ricche o disagiate, campagna o città. Puoi essere ucciso con una fiocina, per difendere un automobilista da un'aggressione nella bellissima Sirolo nelle Marche, o in pieno giorno nella pacifica stazione di Calolziocorte, vicino a Lecco.

La capretta cercava carezze

Questa carica brutale emerge soprattutto quando viene liberata da alcol e droghe. L'ultima, incredibile notizia l'ha data la redazione di FrosinoneToday: alcuni ragazzi, durante la festa per i 18 anni di un'amica in un agriturismo ad Anagni, hanno ucciso a calci una capretta. Uno la colpiva. Gli altri filmavano la scena e ridevano. Le cronache riferiscono che sono tutti figli di famiglie benestanti, un papà nelle forze dell'ordine, una mamma nella politica locale. Il cucciolo si era lasciato avvicinare perché era abituato a essere la mascotte dei bambini ospiti del ristorante. Nessuno che si sia disconnesso da quell'isteria collettiva e lo abbia salvato. Nessuno. Poi il corpo è stato caricato su una carriola e lanciato da un parapetto. Tutto ripreso e postato in due video sui profili social degli aguzzini. Dove, in altre immagini, contano mazzette di banconote, stappano bottiglie di champagne, inseguono una pattuglia dei carabinieri.

Se un giorno qualcuno mai riuscisse a coalizzare questa violenza isterica e a indirizzarla in un percorso collettivo, probabilmente torneremmo agli anni tragici che l'Europa ha già vissuto nel primo Novecento. Non tutti i ragazzi e le ragazze sono ovviamente prede di questa brutalità. La rivoluzione digitale offre infinite opportunità di progresso, studio, lavoro e svago. E la stragrande maggioranza del mondo si connette per questo.

I rottami dopo l'incidente a Biassono (foto MonzaToday)

Ma l'esibizionismo nei video attraverso aggressioni, stupri, bravate mortali (nella foto sopra, le conseguenze di un incidente vicino a Monza, che ha coinvolto due adolescenti) in questi mesi ha superato il livello di allarme. Lo psichiatra Paolo Crepet propone di abbassare la maggiore età a sedici anni: darebbe più responsabilità ai giovani, eventualmente anche quella penale. Non credo però possa bastare. Servono corsi di educazione digitale: a cominciare dalla scuola primaria, fino ai genitori. Servono insegnanti specializzati: bisogna costruire una civiltà digitale, in cui i social e le vie della rete siano luoghi di rispetto reciproco, come lo sono strade e piazze nel mondo fisico. E servono sanzioni severe: per le piattaforme e gli utenti che non rispettano le regole.

Morire a cento all'ora per un video su TikTok - di Fabrizio Gatti

Da quando siamo passati dalla trazione animale al motore a scoppio, per ottenere la patente ancora oggi è necessario partecipare a un corso e superare gli esami. E anche se sono trascorsi decenni, non abbiamo mai smesso di migliorare l'educazione stradale. Facciamo tutto questo per guidare un'auto: ma facciamo poco o nulla per rendere più umano, civile e sicuro lo strumento che noi e i nostri figli usiamo di più ogni giorno.

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