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Sabato, 2 Dicembre 2023

Cesare Treccarichi

Giornalista

I talk show e la spiegazzata del reale

I talk show sono più presenti del solito nella vita degli italiani. In verità, è dall’inizio della pandemia che i talk dettano l’agenda della polemica quotidiana da seguire. E ora c’è la guerra. In periodi di estrema complessità questi sono i luoghi del discorso pubblico in cui si dovrebbero trovare le risposte, mentre spesso gli unici risultati prodotti sono le polemiche indignate e gli scontri tra tifoserie (o sviste notevoli). Il problema non è cosa chiediamo noi ai talk ma cosa i talk vogliono realmente darci. 

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Questione di volontà

Lo scopo primario del giornalismo dovrebbe essere la spiegazione della realtà, con tutte le difficoltà e responsabilità che questo ruolo comporta. E trovare qualcosa di giornalistico in queste trasmissioni inizia a diventare faticoso. I talk sono stati i luoghi mediatici in cui hanno preso vita dicerie, teorie strampalate e semplificazioni che hanno plasmato toni e contenuti di temi che hanno riguardato le nostre vite, come la pandemia e adesso la guerra. Le vittime sono state le notizie, gli approfondimenti, i chiarimenti: e quindi il pubblico.

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Attenzione, i talk hanno funzionato sempre così, ma il periodo storico ne ha estremizzato meccanismi ed effetti. Lo scopo è stato evidentemente diverso dallo spiegare il reale (che è molto complesso) e lo si capisce dalle intenzioni, da come queste trasmissioni vogliono volontariamente presentarci le cose. I talk hanno voluto creare fazioni - a seconda dei casi e delle esigenze anche autentiche tifoserie -che si fronteggiano portando avanti a oltranza le loro posizioni "alternative" contro il fantomatico "pensiero unico".

Il problema è che queste voci di “dissenso” minoritarie sono state sovrarappresentate nel discorso pubblico e diffuse. Non si tratta di rifiuto per la minoranza o per le voci che dicono cose diverse e meno scontate, ma non può valere tutto, ci deve essere un filtro giornalistico. E poi c’è dissenso e dissenso: una deputata non può fare lezioni di virologia a chi studia la materia da decenni (esempio a caso). È la storia – parecchio sentita ma sempre efficace – del “fuori piove”: per capire se piove o meno non c’è bisogno di mettere contro due fazioni (i maltempisti e i soleggiatisti). Per capirlo basta guardare fuori dalla finestra e sentire degli ospiti per chiarire meglio il meccanismo delle perturbazioni, magari. Ma è evidente che non è questo il fine dei talk show.

Spiegazzare, meglio che spiegare

La confusione non aiuta, ma serve a pompare gli ascolti, evidentemente. Se la spiegazione del reale non conviene, meglio spiegazzarlo a proprio piacimento, stropicciandolo e distorcendolo.

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Non è semplice quantificare l’influenza che i talk e i media hanno sul pubblico, ma è evidente che in Italia c’è un problema di percezione, ed è innegabile che i media hanno un ruolo attivo in questo processo. Succede con tutti i temi più “divisivi”, quelli su cui si fondano le puntate con le fazioni schierate che si affrontano (e che poi si riverberano online): nel picco dell’ondata migratoria nel 2016 gli italiani erano convinti di essere invasi, sovrarappresentando la presenza di stranieri in Italia (e secondo i sondaggi a disposizione, anche di molto). Sta accadendo di nuovo: secondo l’ultimo sondaggio Ipsos il 7% degli intervistati in Italia si dice dalla parte di Putin, ma ritiene che la loro fazione rappresenti il 17% del totale. Le ultime puntate da due mesi a questa parte sono state dedicate allo scontro putiniani vs. atlantisti della Nato (magari fosse tutto così semplice), insistendo su posizioni grottesche in nome del “pluralismo”. È la mediatizzazione della realtà, spiegazzata, e non spiegata.

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