Non rendiamoci ridicoli e smettiamo di insultare chi lavora
“La hostess non ha voluto nemmeno darmi il suo nome per poter fare una lettera di richiamo”. Con queste parole, l’influencer Giulietta Cavaglia ha provato a “chiedere la testa” di una dipendente della compagnia aerea Vueling che le avrebbe negato la possibilità di imbarcarsi su un volo, arrivando addirittura a chiedere nome e cognome, manco la matricola, come fosse un agente di polizia. Ma l’aspetto più grottesco della vicenda non è nemmeno questo, in realtà, perché Cavaglia ha provato a far richiamare la hostess non per un errore della dipendente, ma per l’esatto contrario: per aver fatto rispettare le regole della compagnia. In una delle stories precedenti, infatti, la stessa Cavaglia ha raccontato di aver perso il volo perché è arrivata in ritardo al gate, dopo la chiusura dell’imbarco e la hostess sarebbe stata irremovibile sul punto.
Insomma, Cavaglia avrebbe voluto far punire la dipendente per aver fatto bene il proprio lavoro. Un cortocircuito in piena regola. Potrebbe sembrare un episodio di poco conto, contro cui i social si stanno scatenando, come da copione, in attesa della prossima polemica virale. In realtà, a mio parere, questo episodio racconta molto più di mille articoli di giornale e inchieste le condizioni in cui sono costretti a lavorare molti dipendenti a contatto con il pubblico ogni giorno e le assurde pretese dei clienti convinti di aver sempre e comunque ragione perché paganti. Non è certo la prima volta che sul web vengono postati dei video di clienti inalberati che protestano contro camerieri, baristi, commessi e chi più ne ha più ne metta, interpellando i le aziende nel tentativo di far perdere il lavoro a questi lavoratori, con motivazioni spesso abbastanza assurde, come nel caso odierno.
A lavorare invece che sul prato a grigliare
Pochi giorni fa, per esempio, su Tik Tok ha imperversato per giorni il video di un’utente che ha protestato per la battuta di una commessa di GoldenPoint, che avrebbe avuto l’ardire di dire alla cliente che avrebbe voluto essere su un prato a fare una grigliata anziché a lavoro nel giorno di Pasquetta. Nulla di trascendentale per qualsiasi persona dotata di un minimo di empatia, raziocinio e senso dell’umorismo, caratteristiche di cui probabilmente la cliente difettava.
E infatti, appena uscita dal negozio, ha immediatamente pubblicato un video raccontando l’episodio, taggando GoldenPoint, scrivendo persino all’azienda su Instagram per chiedere provvedimenti contro la ragazza. Fortunatamente il video le si è ritorto contro e la commessa ha raccolto la solidarietà di migliaia di persone e l’azienda ha dichiarato pubblicamente che non avrebbe preso alcun provvedimento contro la dipendente. E ci mancherebbe altro, se posso permettermi. Il punto è che da qualche anno a questa parte, complici i social network che sono accessibili a chiunque in ogni momento, un po’ troppe persone sembrano essersi trasformate in moderni giustizieri della notte sempre pronti a registrare e pubblicare video per diffamare lavoratori alle prese con i comportamenti e le richieste più assurde. Basta un nulla per far scattare l’embolo al cliente insoddisfatto di turno che per ripicca prova a chiedere il licenziamento del lavoratore a mezzo social.
No, il cliente non ha sempre ragione
E l’unica motivazione addotta è sempre la stessa: pago, quindi ho ragione a prescindere. Una follia collettiva generata da una leggenda metropolitana che vuole che il cliente abbia sempre ragione. No, il cliente ha ragione se fa richieste ragionevoli e con educazione, i soldi non comprano la dignità delle persone. Molti, troppi, clienti, infatti, non si rendono davvero conto che avanzando richieste simili rischiano di rovinare letteralmente la vita a lavoratori che, magari, sono impiegati in attività di ogni genere in condizioni contrattuali e salariali precarie e che lavorano per mesi, se non addirittura anni, con una perenne spada di Damocle sulla testa. Non puoi permetterti di commettere mezzo errore, molto spesso non puoi permetterti nemmeno di stare a casa in malattia per non rischiare di vedere sfumare un ipotetico rinnovo, non puoi nemmeno rifiutarti di fare tutti gli straordinari richiesti anche se formalmente sei stato assunto con un contratto part-time, ma con le simpatiche clausole elastiche e flessibili. A volte basterebbe provare a parlare con i lavoratori delle attività in cui ci serviamo per capire le motivazioni di determinati disservizi, che magari non sono minimamente imputabili al povero commesso o cameriere di turno. Basterebbe un pizzico di umanità. E di educazione, soprattutto.