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Venerdì, 29 Marzo 2024
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Cuperlo si dimette, Renzi si difende: "A me hanno dato del fascistoide"

Dopo le polemiche durante la direzione del Pd, Cuperlo lascia la presidenza del partito. La risposta del sindaco segretario: "Le critiche franche si accettano e si può rimanere con un sorriso anche se ti danno del fascistoide"

Dopo pranzo è arrivato il flash delle agenzie che ha spaccato il pomeriggio politico: “Gianni Cuperlo si è dimesso dalla presidenza del Pd”. Era nell’aria, visto il precedente. Il fattaccio si è consumato ieri, meno di 24 ore fa. Anche se, a vederla bene, quel che è successo al Nazareno, durante la direzione del Pd, è stato solo l’epilogo di qualcosa che viene da più lontano.

Breve riepilogo, per punti. Otto dicembre 2013, Renzi stravince le primarie e tende la mano al suo sfidante proponendogli la presidenza dei democratici. ‘Gianni’ temporeggia,‘Matteo’ insiste. Alla fine accetta. Qualche vertice, qualche faccia a faccia, una tiratina di orecchie sul caso “Fassina, chi?”. Piena sintonia e sorrisi. Fin qui tutto bene.

Poi c’è un’altra “piena sintonia” che scalda la piazza e la faccenda comincia a scricchiolare. Renzi propone il suo piano salva Italia, salva faccia, salva Pd. Il Jobs Act, la rivisitazione del titolo V della Costituzione ed infine una nuova legge elettorale. Ultima nell’elenco ma da far subito. All’interno di uno stesso pacchetto che metta in moto le riforme costituzionali. Due gambe, un unico impianto. Un nuovo strumento che disciplini la chiamata alle urne stavolta strutturata sulla fine del bicameralismo perfetto, visto che il potere legislativo nelle intenzioni del sindaco di Firenze, ma anche di Napolitano e della quasi totalità della geografia politica italiana, dovrebbe passare solo dalla Camera. E’ il monocameralismo dell’abolizione del Senato, concetto moderno, occidentale e di gran ‘moda’.

Da qui, le consultazioni di Renzi. Con tutti, anche con Berlusconi, incontrato dal segretario sabato scorso al Nazareno, nella sede del Pd. Questione scomoda, a sinistra, incontrare il Cavaliere tra le mura di casa. Tanto da far “vergognare” Fassina. E da far storcere la bocca proprio a Cuperlo. Così al sindaco, ieri, in direzione, gli è toccato spiegare. A suo modo, attaccando: “Se si parla di legge elettorale con chi mi dovevo incontrare, con Dudù? Berlusconi è il capo del centro destra e le regole si fanno insieme. Poi sarà più facile parlare di Jobs Act”. E in questo non si è fatto mancare la predica con quella supponenza, a sinistra, ai danni del ‘nemico’, quella filosofia che umilia l’elettorato che sostiene l’avversario.

Presa la parola, Cuperlo a sua volta, ha spiegato il perché dei suoi mal di pancia e di come quella “gratitudine” che Renzi ha espresso al Cav abbia stonato. “Una cosa è discutere con un leader di un’altra forza politica, altro è stringere un patto politico e costituzionale con un esponente interdetto e che, per la prima volta da 20 anni, non era più egemone nel suo campo”. Roba che potrebbe portare allo “smarrimento dei nostri elettori di fronte alla piena rilegittimazione del capo della destra”.

Finita qui? Nemmeno per sogno. Le frizioni sono continuate. Da una parte Cuperlo che avrebbe voluto una discussione aperta, semmai emendando in casa il testo prima di esportarlo ‘all’estero’. Dall’altra Renzi deciso, invece, a blindare il patto con Fi: “Chi pensasse di intervenire a modificare qualcosa manda all’aria tutto”. Come dire: per il Pd la faccia l’ha messa il segretario e i distinguo interni potrebbero far saltare il banco. Da qui l’osservazione del presidente, ancora nel pieno della propria carica: “Se si dice che è tutto deciso con il voto delle primarie dell'8 dicembre, allora andate spediti e ci rivediamo a una nuova direzione che riconvoca le primarie la prossima volta. Funziona così un partito? Io spero di no. E credo di no”.

Metodo (l’incontro con Berlusconi e la discussione chiusa). Merito: a Cuperlo non è piaciuta la scelta del 35% come soglia per far scattare il premio di maggioranza, “troppo bassa”. E dell’8% come soglia di sbarramento per l’accesso in Parlamento dei partiti non coalizzati, “troppo alta”. Fino alla miccia che ha fatto esplodere il carro e ha gettato il Pd in un pomeriggio caotico: le preferenze. Berlusconi le voleva chiuse, liste corte, da cinque, sei nomi. Renzi ha accettato e ha strappato il doppio turno a due, tra i più votati, nel caso nessuno raggiunga il 35% dei consensi. "Fine delle larghe intese", ha detto.

Una filosofia, quelle delle liste bloccate, della non scelta tra i candidati, che all’ex presidente 'dem' è andata subito di traverso. Lo aveva detto nei giorni scorsi, l’ha rimarcato ieri richiamando, tra l’altro, “profili di dubbia costituzionalità” dell’impianto Renzi – Berlusconi. E il sindaco? Non l’ha presa bene, anzi l’ha presa malissimo e al 'compagno presidente' ha risposto a muso duro: “Il tema delle preferenze l’avrei voluto sentire quando vi siete candidati senza passare dalle primarie la scorsa volta. Questo tuo riferimento alle preferenze non è accettabile da chi non ha fatto le primarie, non lo accetto”.

Al “non lo accetto”, Cuperlo ha lasciato il tavolo della presidenza e se n’è andato via scuro in volto, senza parlare con nessuno. Si è dimesso lì. Prima della richiesta di dimissioni per il “livore” avanzata a gran voce da una renziana di ferro come Rosa Maria Di Giorgi. Prima della lettera, quel vergato spedito al suo segretario e poi pubblicato sul proprio profilo Facebook.

RENZI – E il segretario? Un paio d’ore più tardi ha risposto alla missiva di congedo. “Caro Gianni, rispetto la Tua scelta. Pensavo, e continuo a pensare, che un tuo impegno in prima persona avrebbe fatto bene alla comunità di donne e uomini cui ti riferisci nella tua lettera”. Poi nello specifico della questione, la vicenda politica che sta accompagnando la riforma elettorale: “Se l’accordo reggerà avremo superato il bicameralismo perfetto, modificato l’errore del Titolo V, ridotte le indennità e i rimborsi dei consiglieri regionali, garantito il bipolarismo e il premio di maggioranza, introdotto il ballottaggio, ridotta la dimensione dei collegi, eliminato il potere di veto dei piccoli partiti che ha ucciso l’esperienza del centrosinistra con Prodi. Si poteva fare meglio? Sì, certo. Ma fino ad ora non si era fatto neanche questo. E rimettere in discussione i punti dell’accordo senza il consenso degli altri rischia di far precipitare tutto”.

FRANCHEZZA COME METODO – Da qui il discorso è virato sullo stile Renzi, il suo, quello della “franchezza”, “senza pugnalate alle spalle”. Quella brusca, che semmai non fa male tra amici ma spariglia la platea politica. Così com’era stato con Bersani, al tempo degli schiaffi da primarie, seguiti da pranzi e caffè, e da quelli post elettorali. Così per Letta che “non si fida di me”. Così per Fassina – “Fassina chi?” –, e quel modo di rapportarsi con la stampa, a cui “non rinuncerò mai” (Fassina che, per altro, definendo le dimissioni di Cuperlo “allarmanti” – “Matteo non accetta critiche e questo indica debolezza. Le dimissioni di Gianni arrivano perché il partito deve essere plurale” – non ha voluto sentir parlare di scissione). “La franchezza e la lealtà – ha scritto Renzi –  mi hanno portato a criticare, nel merito, il tuo intervento. In un Partito Democratico le critiche si fanno, come hai fatto tu, ma si possono anche ricevere. Mi spiace che ti sia sentito offeso a livello personale”. Quel personale che Renzi non vuol sentir parlare, un po’ come fu per Fassina, la prima vittima del modo di intendere la discussione. Nel Pd, ha continuato Renzi, “ci si può sentire offesi perché uno ti dice che sei livoroso. E dove si può rimanere con un sorriso anche se ti danno del fascistoide”.

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