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Mercoledì, 24 Aprile 2024

Stefano Pagliarini

Responsabile redazione

Il silenzio elettorale non ha più senso (purtroppo)

“Pina, stammi a sentire, se io sbaglio il voto, va a finire che non mangiamo e non mangiate per una decina di anni”. Rispondeva così un agitatissimo Fantozzi alla moglie che provava ad offrire un pasto veloce al marito, digiuno da due giorni e recluso in una stanza con tre televisori sintonizzati su diverse tribune elettorali. Nel celebre film “Fantozzi subisce ancora”, il protagonista tragicomico della pellicola cult vedeva nelle elezioni politiche (il film è del 1983) un momento cruciale per decidere il proprio destino, come cittadino e come uomo, al punto da spendere 60mila delle vecchie lire in quotidiani, con l’intento di informarsi al meglio e scegliere a chi dare il proprio sostegno. 

È proprio in quel contesto storico che si inserisce la regola del silenzio elettorale, valido anche in occasione delle elezioni comunali del 3 e 4 ottobre. Disciplinato dalla legge 4 aprile del 1956 numero 212 sulla propaganda elettorale, ha il compito di concedere al cittadino due giorni in cui nessuno, partiti, politici e militanti, possa fare propaganda per alcun simbolo elettorale. Sono 48 ore in cui l’elettore deve poter metabolizzare tutti i perché dei vari candidati e scegliere con la maggiore consapevolezza possibile il suo rappresentante in Parlamento. 

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Quella ponderanza stona con la vita moderna di oggi. Il silenzio elettorale acquisisce maggiore senso in un momento storico come era quello precedente alla crisi dei partiti, quando la politica aveva una maggiore credibilità e i leader avevano non solo la legittimazione delle masse e delle assemblee, ma anche il manto del leader, di chi poteva davvero prendere per mano un Paese e mettersi alla guida di una squadra capace di cambiarne le sorti. Aveva senso perché serviva del tempo per leggere un programma elettorale e capirne il significato, per tornare da un comizio di due ore e confrontarsi in famiglia su quanto sentito, per capire dove fosse la “ragione” di fronte ad un confronto. Oggi i politici non fanno più comizi e le piazze rischiano di essere pericolose se non sono quelle virtuali, dove il confronto è sterilizzato. Basta una storia selfie su Instagram per comunicare con i propri fan. I programmi? C’è chi nemmeno li presenta.
La regola però resta e, come riportato anche sul sito del Ministero dell’Interno, recita: 

"Nel giorno precedente e in quelli stabiliti per le elezioni sono vietati i comizi, le riunioni di propaganda elettorale diretta o indiretta in luoghi pubblici o aperti al pubblico, la nuova affissione di stampati, giornali murali o altri e manifesti di propaganda". 

"Nei giorni destinati alla votazione è altresì vietata ogni forma di propaganda elettorale entro il raggio di 200 metri dall’ingresso delle sezioni elettorali". 

Se si guarda bene dunque, quella del silenzio elettorale oggi, non solo sembra essere diventata una regola anacronistica, ma rischia anche di essere paradossale, creando vere discriminazioni fra chi, il giorno prima del voto, si trova a fare propaganda a 195 metri di distanza da un seggio e chi magari passa le ore a "spammare" i santini sui social network. 

Chi viola il silenzio elettorale rischia una sanzione amministrativa pecuniaria che va da un minimo di 103 euro fino ad un massimo di 1.032 euro. Sono cambiati i tempi. È improbabile vedere l’effettiva applicazione. Di fatto è una norma inefficace. Forse è un bene perché altrimenti servirebbe la creazione di un apposito pool della Polizia Postale per dare la caccia ad un’infinità di trasgressori. Non è un bene se si pensa come tutto questo sia il risultato di una politica in cui il tweet ha soppiantato il confronto, con buona pace dei “Fantozzi” dei nostri giorni che, il diritto ad essere informati in un certo modo, ce lo hanno ancora e giustamente lo rivendicano pure.  

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