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Venerdì, 29 Marzo 2024
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Mori non favorì il boss Provenzano: una legge e un film dopo l'assoluzione

Il generale Mario Mori, ex comandante dei Ros e direttore del Sisde, si racconta per la prima volta dopo l'assoluzione definitiva per la mancata cattura di Bernardo Provenzano: la sua vita nel nuovo film di Ambrogio Crespi. E una legge "per far sì che quello che è capitato a me non accada mai più a nessun altro"

"Sono molto sereno e ho la coscienza a posto, devo curarmi e mantenermi in salute perché devo veder passare tutti i miei nemici... passare anche a miglior vita". Serafico e tenace, Mario Mori, 78 anni, sembra ringiovanito malgrado la lunghissima vicenda processuale che lo ha coinvolto per nove anni. L'ex generale dei carabinieri e direttore del Sisde è stato assolto in primo grado, poi in appello e infine, lo scorso 8 giugno, in Cassazione. I supremi giudici hanno respinto il ricorso della procura generale di Palermo contro la sentenza nei suoi confronti e del colonnello Mauro Obinu, imputati di favoreggiamento aggravato alla mafia. Anche gli ermellini, dunque, ritengono che non ci fu un mancato blitz e nessun protesse la latitanza del boss Bernardo Provenzano.

Il processo fa riferimento a un mancato blitz del 31 ottobre 1995: secondo il colonnello Michele Riccio le dichiarazioni di un confidente - Luigi Ilardo - avrebbero potuto portare alla cattura del capomafia corlonese, che aveva organizzato un summit tra i suoi fedelissimi in un casolare nelle campagne di Mezzojuso. "Quel blitz non fu possibile perché i vertici del Ros non misero a disposizione i mezzi necessari", ha accusato Riccio. Per i supremi giudici, qualsiasi cosa sia avvenuta in quel casolare palermitano non è da considerarsi reato.

PERCHE' UNA "LEGGE MORI"

A pochi giorni dalla sentenza che lo assolve definitivamente da ogni accusa, il generale Mori ha presentato oggi insieme a Giovanni Negri - già segretario del Partito Radicale, ex parlamentare europeo e giornalista, nonché creatore della Convenzione della Marianna a febbraio scorso - la proposta di legge che porta il suo nome. Una proposta di legge per riformare la giustizia, simbolicamente chiamata ‘Legge Mori’, ma soprattutto una campagna civile affinché "si conquisti per ogni cittadino il diritto a un processo in tempi tassativi, certi e inderogabili", come garantito dalla Costituzione ma troppo spesso negato nei tribunali. E ha annunciato il nuovo docufilm diretto da Ambrogio Crespi, che completa la “trilogia sulla giustizia” iniziata con “Enzo Tortora, una ferita italiana” e proseguita con “Spes contra Spem – Liberi dentro”, un film sul carcere ostativo e sulla possibilità di cambiare.

Da parte di Mori - il cui caso è stato accostato da molti a quello di Enzo Tortora - nessuna recriminazione per gli anni trascorsi nelle aule di giustizia a difendersi da un’accusa poi rivelatasi infondata dopo nove anni. Solo lucide considerazioni: "Ho letto le carte, mi sono documentato. Non ho perso tempo, anzi l’ho guadagnato. Ho scontato sulla mia pelle la lentezza della giustizia. Io ho le risorse economiche per potermi difendere, le conoscenze e i mezzi per poter affrontare processi così lunghi, ma cosa sarebbe accaduto se al posto mio ci fosse stato il signor Rossi? Mai più non a me che ne sono uscito - conclude il generale Mori - ma mai più a nessun altro, perché ogni cittadino deve avere il diritto a tempi certi per la celebrazione di un processo".

I TEMPI CERTI PER I PROCESSI

Ecco quindi la proposta di legge contro le odissee giudiziarie, che sarà inviata al ministro della Giustizia, all'Associazione nazionale magistrati e a tutti i candidati alle prossime elezioni. Il valore di principio assoluto della legge Mori, hanno detto i promotori, è "la decadenza automatica dell'azione penale in caso di superamento di termini temporali tassativamente definiti, da rapportarsi all'entità del reato". Servono risorse per la giustizia, il potenziamento degli strumenti deflattivi, la previsione di termini prescrizionali che abbiano come "dies ad quem" il deposito degli atti di indagine, ma soprattutto occorre rispettare i termini perentori proposti, pena la decadenza dell'azione: dieci giorni tra la notizia di reato e l'iscrizione nel registro degli indagati, diciotto mesi o due anni per l'esercizio dell'azione penale, due o tre anni per la sentenza di primo grado, due anni per l'appello, un anno per la Cassazione.

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