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Mercoledì, 24 Aprile 2024

Fabrizio Gatti

Direttore editoriale per gli approfondimenti

Perché Giorgia Meloni deve collaborare con le Ong in Africa

Nove anni fa tutto il mondo parlava di Lampedusa. Il naufragio del 3 ottobre 2013, con le sue 368 vittime, divenne il simbolo di una nuova stagione di sbarchi. Se ci chiediamo cosa è stato fatto da allora per gestire legalmente l'immigrazione verso l'Italia (e anche verso l'Europa), la risposta è: nulla di efficace.

Da una parte viviamo in un Paese che si sta pericolosamente spopolando. La continua diminuzione delle nascite (una previsione di appena 385 mila nuovi nati quest'anno) non basta a compensare l'età media sempre più alta degli italiani e l'alto numero di decessi naturali (oltre 700 mila nel 2021). Gli effetti già li vediamo in molti settori, come la maggiore difficoltà a trovare medici, camerieri, operai specializzati. Avanti di questo passo, dal 2030 in poi l'Italia perderà il suo primato industriale e diventerà via via una nazione sempre più povera e bisognosa di aiuto.

Dal Pd a Matteo Salvini

Dall'altra parte, abbiamo avuto governi convinti che bastasse fermare le partenze dalla Libia per risolvere la questione migratoria, senza prestare alcuna attenzione al crollo demografico. Siamo passati dagli accordi bilaterali tra i ministri del Pd e Tripoli alla chiusura dei porti italiani alle navi di soccorso ordinata da Matteo Salvini, allora ministro dell'Interno della Lega. Terminato l'effetto di queste operazioni di facciata, però, si è tornati daccapo.

Migliaia di persone continuano ad avviarsi ogni mese verso la Libia, gli sbarchi sono ripresi e, soprattutto, chi arriva ha scarsa preparazione scolastica, professionale o universitaria. Tanto che sono necessari costosi programmi di inserimento nella società italiana, di cui a volte beneficiano più i dipendenti italiani delle organizzazioni di accoglienza, con la creazione di nuovi posti di lavoro, e meno i nuovi cittadini.

Il cambiamento di governo potrebbe essere l'occasione per estendere le competenze sull'immigrazione al ministero degli Esteri, in modo che l'Italia sviluppi relazioni concrete con gli Stati di partenza. Almeno con quelli caratterizzati da una forte emigrazione per ragioni economiche (là dove ci sono guerre, c'è poco da fare se non mediare per la pace). Questa partecipazione bilaterale potrebbe sostenere programmi di studio e formazione professionale da completare sul posto ma collegati, se è nell'interesse della persona, al rilascio di permessi di soggiorno per lavorare in Italia. Otterremmo due risultati: una ricaduta economica sui Paesi d'origine e l'arrivo legale, con regolari visti d'ingresso, di persone già formate e che magari hanno imparato anche la nostra lingua.

Ministri al di là del mare

Per ottenere tutto questo, però, bisogna che i nostri futuri ministri siano disposti ad andare più spesso al di là del Mediterraneo e a percorrere, con coraggio e fuori dagli slogan elettorali, nuove strade. Potrebbe essere di loro aiuto un libro che chiunque si occupa di migrazioni dovrebbe studiare: “Nuova energia per l'Africa, 45 anni di cooperazione controcorrente nel Sahel” (L'Harmattan editore), scritto da Stefano Bechis, tecnico di ricerca al Politecnico di Torino, e Paolo Giglio, un piemontese che la migrazione l'ha fatta al contrario e oggi è un cittadino del Niger, uno degli Stati lungo la rotta del deserto che porta in Libia.

“Stiamo veramente aiutando i poveri a stare meglio? Attualmente no”, spiega con sincerità Paolo Giglio a Today.it: “La maggior parte degli Stati donatori ha intriso nel proprio approccio una burocrazia tale che lo scavatore di pozzi del villaggio non ha nessuna possibilità di ottenere la commessa per fare un pozzo. Queste pesanti procedure proteggono tecnocrati incompetenti che sanno compilare i loro giustificativi di spesa, ma non saprebbero controllare se un pozzo funziona, se una saldatura è ben fatta o se la manutenzione necessaria può essere garantita localmente. Questi controllori esigono, nel rispetto delle procedure imposte dai governi donatori, un numero di documenti cartacei talmente importante che i responsabili dei progetti di sviluppo ormai devono assumere più amministratori che tecnici. Il risultato finale è tanta documentazione in regola, ma meno pozzi e meno fondi per quanti ne hanno bisogno. Non stupitevi quindi, quando gli ultimi, gli abitanti dei villaggi, non ce la fanno più e scappano verso l'Europa”.

Il cortocircuito dei soldi

Uno sguardo va dato anche alle Ong, le organizzazioni non governative che si sono sostituite agli Stati nel garantire le operazioni di soccorso nel Mediterraneo. Una delle conseguenze dei grandi naufragi di nove anni fa, le stragi del 3 e dell'11 ottobre con un bilancio di oltre 600 vittime, è la particolare attenzione – anche in termini di investimenti economici – dedicata al recupero di profughi in mare durante la traversata dalla Libia all'Italia. Poco o nulla è stato invece fatto – e speso – per prevenire che migliaia di persone arrivassero in Libia e finissero schiave delle bande di trafficanti.

Il soccorso marittimo è obbligatorio e quindi non è in discussione. Ma se la stessa attenzione e la stessa quantità di denaro venissero destinate alla formazione scolastica e professionale dei candidati all'emigrazione, le persone così qualificate potrebbero entrare regolarmente in Italia, con una adeguata preparazione al lavoro e senza rischiare la vita.

Mantenere le missioni di soccorso, secondo quanto dichiarato nelle campagne promozionali, costa almeno 2,8 milioni l'anno. Sono 233 mila euro al mese, oltre settemila al giorno per ogni singola organizzazione. Se un patto tra Stato e Ong riuscisse a interrompere questo cortocircuito e a trasferire gli investimenti al di là del mare e del deserto, vedremmo finalmente costruire qualcosa di nuovo e duraturo. Visto che il 2030 è vicinissimo. E ogni bambino nato oggi sarà adulto soltanto nel 2050.

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