rotate-mobile
Venerdì, 29 Marzo 2024

Fabio Salamida

Giornalista

Alla fine è sempre l'eterno secondo

E lui è ancora lì, eterno secondo, perché la politica è fatta anche di déjà vu, di storie che si ripetono e di eterni ritorni sul luogo del delitto. C’era un tempo in cui Matteo Salvini sognava “pieni poteri” tra bevute di mojito e cubiste che ballavano sull’inno di Mameli in versione disco: ma di pieno, il “capitano”, aveva solo lo stomaco che si dilatava quasi quanto il suo ego ospitando prodotti tipici dell’italica terra, tra feste patronali, spiagge affollate e sagre di paese. Erano i giorni del Governo Conte I, nato dall’accordo innaturale tra due partiti che fino al giorno prima si erano disprezzati vicendevolmente, ma che in nome di un comune ceppo populista avevano instaurato una difficile convivenza che si sarebbe impantanata, di lì a poco, nella sabbia di un noto stabilimento balneare di Milano Marittima.

Il lento declino

Sembra passato un secolo, ma in realtà i fatti narrati in questo epico racconto si svolgevano poco più di 3 anni fa, transitando negli stessi palazzi e tra gli stessi scranni che oggi incoronano ufficialmente la nuova star del momento, quella Giorgia Meloni leader di un partito che nel “lontano” 2018 raccolse un misero 4,33% e che il 25 settembre scorso si è imposto con il 26%. In un battito di ciglia il mondo è cambiato: due anni di pandemia, una guerra ai confini dell’Europa, una crisi energetica ed economica che sta cambiando la vita di generazioni e detta a tutti nuove priorità. E lui è ancora lì, eterno secondo, seduto nello stesso punto in cui fu umiliato pubblicamente da Giuseppe Conte, che lo congedò con una mano sulla spalla, con un gesto paterno che segnò l’inizio dell’inesorabile declino. I più maliziosi sussurrarono che in quel folle inizio agosto del 2019, ebbro di mojito e del 34% ottenuto alle elezioni europee di pochi mesi prima, non avesse ascoltato il saggio consiglio dell’amico e nemico Giancarlo Giorgetti, oggi Ministro dell’Economia, che poco più di un anno prima aveva consigliato a lui e agli altri ministri leghisti del Governo gialloverde di tenere sulla scrivania una foto di Matteo Renzi, passato in pochi mesi dall’altare del 40% alla polvere del variegato mondo delle liste con percentuali da prefisso telefonico. La strategia di fare l’opposizione da dentro l’esecutivo per assorbire una parte importante dell’elettorato dell’alleato aveva funzionato alla perfezione, ma il “capitano” ebbe troppa fretta di raccogliere quel voto di pancia e si ritrovò con un pugno di mosche in mano.

Cosa non si fa per stare a galla

Il resto è storia recente: l’appoggio al Governo Draghi con attacchi quotidiani ai ministri del Governo Draghi, l’umiliazione in terra polacca per i suoi trascorsi filo-putiniani, la migrazione del suddetto voto di pancia verso Giorgia Meloni, quel mediocre 8,8% a pesare come una spada di Damocle sul suo destino. E lui e ancora lì, eterno secondo, costretto a cedere i riflettori a quella donna che i “pieni poteri” li sognava già da adolescente, a cercare goffamente di rubarle la scena andando in tv un giorno prima dell’esordio del nuovo Governo ad elencarne le priorità, con quel consueto piglio da marito imbranato alle prese con la lista della spesa compilata da una moglie autoritaria: con quell’aria un po’ stordita di chi legge sul foglietto “un pacco di assorbenti, mi raccomando, quelli con la scatola viola” e si ritrova davanti a uno scaffale pieno di scatole di assorbenti di ogni tipo e dimensione, tutte rigorosamente di colore viola. Il disperato tentativo di eroderle voti sfruttando una posizione privilegiata, come fece con i grillini, è destinato a fallire miseramente, perché i punti fermi della sua propaganda sono identici a quelli della potente alleata, che però li sa declinare in modo assai più incisivo, senza bisogno di riempire pareti con santini e madonne. Dalle parti dell’estrema destra, dove il concetto di “uomo forte” è uno dei fondamenti del consenso, il presidente del Consiglio (non a caso declinato al maschile) è ora l’incarnazione del capo, gli alleati sono i suoi sottoposti. Un capo che come primo atto, probabilmente assecondando volentieri un desiderio del Quirinale, lo ha “castrato” privandolo della preziosa propaganda su immigrazione e difesa dei famigerati confini: con l’uomo che scrisse i “decreti sicurezza” nominato Ministro dell’Interno, sarà dura intestarsi risultati o avanzare critiche.

Lui giocava a burraco

Per settimane ha provato a tornare in quelle stanze in cui nel 2019 entrò solo diciassette volte perché troppo impegnato a gestire una lunga lista di comizi, feste, eventi mondani, ma non c’è stato nulla da fare. Si è dovuto “accontentare” della poltrona su cui un tempo sedeva Danilo Toninelli, con tanto di minaccia di vedersi sfilare anche la delega ai porti, fondamentale per tenere poveri disgraziati per giorni in mezzo al mare. Forse temendo lo smacco finale è tornato con fare ligio al posto a lui assegnato, indossando occhiali dalla montatura pesante per fugare ogni dubbio sulla sua operosità e per rispedire al mittente le battute ironiche su quanto sia un controsenso accostare il suo nome alla parola “lavoro”: “Mi pagano per essere attivo, non per stare a casa a giocare a burraco”, dice. E il ricordo va a quel 2 maggio del 2020, a quella circolare interministeriale che titolava “Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da covid-19, applicabili sull'intero territorio nazionale”. Molti eletti della Lega proseguivano nell’occupazione a oltranza delle aule di Camera e Senato contro le restrizioni del Governo: lui si faceva fotografare casa, mentre giocava a burraco.

Si parla di

Alla fine è sempre l'eterno secondo

Today è in caricamento