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Martedì, 23 Aprile 2024
Fact checking

Il vitalizio dei parlamentari è salvo per poche settimane

Se le Camere fossero state sciolte i primi di settembre deputati e senatori avrebbero probabilmente perso tutti i contributi versati. Ma sulle tasche degli eletti peserà di più rinunciare agli stipendi che avrebbero incassato

Ma è vero, come si sente ripetere spesso in queste ore, che i parlamentari hanno maturato il diritto al vitalizio per una manciata di giorni? I conti sono presto fatti. La normativa vigente prevede che per accedere alla pensione da politico un parlamentare debba essere rimasto in carica almeno quattro anni, sei mesi e un giorno. Tenendo conto che la prima seduta parlamentare dell’attuale legislatura si è svolta il 23 marzo del 2018 (sia alla Camera che al Senato) il diritto alla pensione scatterà dunque il 24 settembre del 2022. Un giorno prima delle elezioni che sono state fissate per il 25. 

La legge stabilisce però che i parlamentari rimangano in carica fino alla prima seduta del Parlamento successivo. A tal proposito l’articolo 61 della Costituzione prevede che le elezioni delle nuove Camere avvengano "entro settanta giorni dalla fine delle precedenti" e che la prima riunione abbia luogo "non oltre il ventesimo giorno dalle elezioni" e dunque, nel caso specifico, entro il 15 ottobre. In altre parole: i parlamentari avrebbero perso il diritto al vitalizio solo se il Parlamento si fosse riunito per la prima volta prima del 24 settembre (il giorno del "vitalizio day"), ma così non sarà. Si tratta però di una questione di poche settimane. Se ad esempio le elezioni si fossero tenute il 3 settembre i parlamentari avrebbero perso il trattamento pensionistico.

Ma è davvero così? Ci sono alcune precisazioni da fare: dal 2012 l’assegno che spettava ai parlamentari è stato sostituito con un trattamento pensionistico simile a quello previsto per altri lavoratori. Anzi: rispetto a questi ultimi gli eletti di Camera e Senato devono fare i conti con un ostacolo in più: la legge infatti prevede che i contributi versati non possano essere riagganciati a quelli relativi ad altre attività lavorative. In poche parole, se non viene raggiunto il traguardo fatidico dei 4 anni e sei mesi, tutto ciò che è stato versato ai fini contributivi viene di fatto perso. E parliamo, nel caso specifico, di circa 50mila euro.

Ci sarebbe però una ipotetica (molto ipotetica) "scappatoia": ovvero versare i contributi mancanti di tasca propria per raggiungere l’intero periodo della legislatura. Lo scorso novembre tuttavia il Consiglio di Giurisdizione di Montecitorio ha smentito i rumors su questa presunta possibilità spiegando che non esiste "alcuna sentenza della Camera che stabilisce che i deputati maturerebbero la pensione in caso di scioglimento della legislatura prima di quanto previsto dalle norme in materia".

Diverso è il caso del Senato. Sempre a novembre il senatore di Forza Italia Luigi Vitali, presidente del Consiglio di Garanzia di Palazzo Madama, aveva spiegato all’Agi che al Senato una decisione della Corte da lui presieduta aveva invece stabilito il diritto al riscatto della pensione, a condizione di essere rimasti in carica per almeno 12 mesi e di versare di tasca propria i contributi che mancano. A quanto ci risulta il Consiglio di presidenza del Senato non si è ancora espresso. Insomma, almeno a Palazzo Madama la questione è più complessa di come appare.

A questo punto viene da chiedersi? Sì, ma quanti parlamentari ci sono al primo giro? Come spiegavamo in un altro articolo non sono pochi, anzi la maggioranza. Alla Camera sono 427, cioè il 68%, i deputati eletti che rischiano di perdere quanto versato, mentre al Senato arrivano a 234 cioè il 73%. A scanso di equivoci va anche detto che per i parlamentari il danno economico maggiore deriva senza dubbio dal rinunciare allo stipendio cui avrebbero avuto diritto. Non è un segreto infatti che con il taglio dei parlamentri che enterà in vigore a partire dalle prossima legislatura, molti deputati e senatori non hanno speranze di essere rieletti. Non votando la fiducia al governo Draghi in molti hanno dunque rinunciato al lauto compenso che avrebbero incassato da qui alla scadenza naturale dei cinque anni. 

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