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Giovedì, 28 Marzo 2024

Via alle carceri senza carcerieri: "Puntiamo sulla voglia di riscatto dei detenuti"

Gli "ospiti" della vecchia casa colonica sono ladri, spacciatori, assassini: tutti imputati in attesa di giudizio o condannati ammessi a pene alternative. Un progetto di successo, che merita di essere raccontato (e magari anche sovvenzionato dallo Stato)

C'è un carcere senza sbarre, senza carcerieri, senza filo spinato. Siamo in Romagna, a Coriano. 

Gli "ospiti" della vecchia casa colonica sono ladri, spacciatori, assassini: tutti imputati in attesa di giudizio o condannati ammessi a pene alternative. Ad accompagnarli c'è il gruppo di volontari della comunità Papa Giovanni XXIII, l'associazione fondata da don Oreste Benzi.

Non li chiamano detenuti, ma "recuperandi": qui nelle Cec (Comunità educante con i carcerati) si punta tutto sulla voglia di riscatto, sul desiderio di mettersi alle spalle gli errori del passato e costruirsi una vita, una vita vera. Solo l’8% di coloro che portano a termine il programma di recupero dell’Associazione torna a delinquere a fronte di una media nazionale del 70%.

Esperienze simili si segnalano in Abruzzo, Toscana e Piemonte, come racconta oggi il Giornale. La rete si ispira all'esperienza brasiliana delle Apac (Associazioni di protezione e assistenza ai carcerati), dove i detenuti hanno le chiavi delle celle: l'Onu le ha definite il più efficace metodo di recupero al mondo.

Sovraffollamento e maltrattamenti: perché le carceri italiane scoppiano

Il percorso di riabilitazione in Italia è diverso, non per tutti. Alle Cec possono accedere solo alcune tipologie di imputati, una quota ovviamente minoritaria. Sono comunità fatte di carcerati, ma anche di volontari: insieme ci si aiuta, si lavora, si cercano soluzioni nuove per affrontare i problemi che si incontrano nel cammino di recupero

Leonardo è a Coriano da un mese. È entrato e uscito dal carcere per spaccio, rapina, lesioni. «Sono venuto qui perché non ci voglio più ricascare - racconta -. I miei genitori sono poveri, non ho studiato, non ho lavorato. Il primo a darmi una pacca sulla spalla e dirmi bravo non è stato mio padre ma un malavitoso. E quando sono uscito gli unici a mettermi in mano un telefono e qualche soldo sono sempre quelli del giro».

Le comunità di questo tipo sono un successo grazie a varie "buone pratiche": coinvolgere la realtà esterna, cioè il territorio, le famiglie, le aziende, per assecondare il reinserimento; responsabilizzare il «recuperando», che a sua volta aiuta a recuperare; favorire la formazione professionale, assieme a quella culturale e religiosa. 

Lo Stato per ora non appoggia economicamente queste esperienze. La speranza di chi ci lavora ogni giorno è che il mondo politico si accorga di realtà del genere. Tutti hanno diritto a una seconda opportunità: senza un supporto adeguato per i detenuti a volte è una missione impossibile.

Fonte: Il Giornale →
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