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Giovedì, 25 Aprile 2024

Coronavirus, l'anestesista che ha "scoperto" il focolaio italiano: "Ho pensato all’impossibile"

Repubblica ha intervistato il medico dell’ospedale di Codogno che ha intuito la diagnosi di Mattia, il paziente 1. "Se una persona sta male, una causa c’è. Se le cure note non funzionano, devi tentare quelle che non conosci", racconta l'anestesista Annalisa Malara

Ha intuito che Mattia, il 38enne che poi sarebbe diventato il cosiddetto "paziente 1", era stato attaccato dal coronavirus. Ha chiesto l’autorizzazione all’azienda sanitaria per un tampone, anche se i protocolli italiani non lo giustificavano in quei giorni. Ha forzato le regole? "Dico che verso le 12.30 del 20 febbraio i miei colleghi ed io abbiamo scelto di fare qualcosa che la prassi non prevedeva. L’obbedienza alle regole mediche è tra le cause che ha permesso a questo virus di girare indisturbato per settimane". A parlare è Annalisa Malara, anestesista di Cremona: è il medico dell'ospedale di Codogno, in provincia di Lodi, che ha intuito la malattia individuando il focolaio italiano.

Intervistata da Repubblica, racconta che "quando un malato non risponde alle cure normali, all’università mi hanno insegnato a non ignorare l’ipotesi peggiore. Mattia si è presentato con una polmonite leggera, ma resistente ad ogni terapia nota. Ho pensato che anch’io, per aiutarlo, dovevo cercare qualcosa di impossibile".

Il 38enne, tuttora ricoverato nel reparto di terapia intensiva del policlinico San Matteo di Pavia, "dal 14 febbraio aveva la solita influenza, che però non passava. Il 18 è venuto in pronto soccorso a Codogno e le lastre hanno evidenziato una leggera polmonite. Il profilo non autorizzava un ricovero coatto e lui ha preferito tornare a casa. Questione di poche ore: il 19 notte è rientrato e quella polmonite era già gravissima", racconta l'anestesista.

Il medico dell'ospedale lombardo ha chiesto un'altra volta alla moglie se Mattia avesse avuto rapporti riconducibili alla Cina. "Le è venuta in mente la cena con un collega, quello poi risultato negativo". Ecco quindi la decisione di richiedere un tampone, anche se "i protocolli italiani non lo giustificavano. Mi è stato detto che se lo ritenevo necessario e me ne assumevo la responsabilità, potevo farlo". 

"Il tampone di Mattia è partito per l’ospedale Sacco di Milano prima delle 13 di giovedì. La telefonata che confermava il Covid-19 mi è arrivata poco dopo le 20.30. Nel frattempo io e i tre infermieri del reparto abbiamo indossato le protezioni suggerite per il coronavirus. Questo eccesso di prudenza ci ha salvato. Se una persona sta male, una causa c’è. Se le cure note non funzionano, devi tentare quelle che non conosci. Il Covid-19 non aveva messo in conto che l’essere umano, pur di sopravvivere, non si rassegna".
 

Fonte: La Repubblica →
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