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Sabato, 20 Aprile 2024

I Dpcm di Conte sono illegittimi?

La sentenza del tribunale civile di Roma sostiene che il decreto ministeriale resta un atto amministrativo che non può restringere le libertà fondamentali. Ma...

Nei giorni scorsi Italia Oggi ha parlato di una sentenza del tribunale civile di Roma in cui si sollevavano dubbi sulla legittimità dei Dpmc di Giuseppe Conte come strumenti di legge per la limitazione delle libertà costituzionali. La sentenza è del 16 dicembre scorso e porta la firma del giudice Alessio Liberati: sostiene che il dpcm resta un atto amministrativo che non può restringere le libertà fondamentali anche se a "legittimarlo" è un atto che invece ha forza di legge, mentre la parte che non lo impugna - osserva il giudice - diventa essa stessa causa delle conseguenze negative sulla piena fruibilità dell’immobile.

Insomma: il giudice condivide «l’autorevole dottrina costituzionale» secondo cui è contraria alla Costituzione prevedere mediante decreti del presidenza del consiglio dei ministri norme generali e astratte, che peraltro limitano diritti fondamentali della persona. Di più. Il primo decreto legge che ha «legittimato» il dpcm non fissava neanche un termine né tipizzava i poteri: conteneva un’elencazione a titolo d’esempio e consentiva così l’adozione di atti innominati, oltre a non stabilire le modalità di esercizio dei poteri.

L’emergenza sanitaria, si legge poi nell’ordinanza, non è «di per sé condizione impediente in termini assoluti»: lo sono invece i provvedimenti adottati durante l’emergenza. Oggi Il Sole 24 Ore spiega però che le considerazioni svolte dal Tribunale costituiscono una valutazione svolta al fine di giudicare solo sul comportamento del singolo conduttore senza ovviamente che ciò possa spiegare un effetto giuridico diretto sui provvedimenti straordinari del Governo i quali restano ad oggi perfettamente validi e vincolanti.

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Quanto alle argomentazioni svolte in merito alla diligenza del conduttore pare inoltre legittimo - sia pure ad una prima lettura - qualche dubbio giuridico in merito alla possibilità di criticare la parte per il fatto di non essersi opposta e non avere ottenuto in via giudiziale la disapplicazione delle previsioni del Dpcm. La previsione dell’esito di qualunque processo costituisce, infatti, un’operazione che – nella generalità dei casi – può definirsi come pressoché impossibile trattandosi di preconizzare l’esito di quel lavoro straordinariamente difficile nel quale si sostanzia il compito di giudicare (come scriveva Piero Calamandrei, in ogni processo molteplici sono i punti di diritto e di fatto da risolvere, e prima di giungere alla decisione definitiva, il giudice deve spesso pronunciare una quantità di decisioni pregiudiziali e interlocutorie, nelle quali alle questioni di merito si alternano le questioni processuali) e da ciò discende, a mio avviso, l’estrema difficoltà di rimproverare a una parte il fatto di non avere agito vittoriosamente contro il Dpcm (così come la scelta di non affrontare i costi, i tempi e i rischi di un siffatto percorso giudiziale).

All'epoca abbiamo ricordato che nell'agosto scorso aveva fatto rumore la sentenza di un giudice di pace del tribunale di Frosinone che aveva annullato la multa comminata a padre e figlia per aver violato la quarantena durante il lockdown (i due erano stati bloccati fuori casa mentre erano diretti a fare rifornimento di acqua ad una fontanella a scheda) per "illegittimità addirittura dello stato di emergenza che può essere dichiarato solo dalla Protezione Civile, come recita appunto il Codice della Protezione Civile". La sanzione era stata revocata perché, secondo il magistrato onorario, lo stato di emergenza che il governo può decretare non contempla "il rischio sanitario".  Il 20 novembre scorso però un altro giudice di pace, quello del tribunale di Busto Arsizio, ha preso una decisione completamente diversa, respingendo i ricorsi di due cittadini che erano stati trovati dai carabinieri a imbiancare le pareti del loro negozio allo scopo di sanificare l'ambiente e avevano addotto questa motivazione per uscire di casa. Una motivazione respinta perché "i due ricorrenti non svolgono il ruolo di imbianchini" e la loro scelta di andare in negozio non era consentita in quanto "non tutelata come eccezione al divieto generale, cui i ricorrenti avrebbero dovuto attenersi". 

Fonte: Il Sole 24 Ore →
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