rotate-mobile
Venerdì, 19 Aprile 2024
Criptomonete green

Parte la campagna di Greenpeace per rendere sostenibili i bitcoin

Modificando il metodo di validazione delle transazioni si potrebbe ridurre l’impatto ambientale dei bitcoin, che attualmente equivale a quello dell'intera Grecia. È l’obbiettivo della campagna “Change the Code, Not the Climate”

I bitcoin sono nati per liberare le transazioni online dal controllo di stati, banche centrali e circuiti di pagamento tradizionali. Alla prova dei fatti, oggi sono più usati come bene rifugio e come strumento di speculazione. E nascondono un oscuro segreto: un impatto ambientale catastrofico. La rete di computer che tiene in piedi la più capitalizzata criptomoneta del mondo consuma infatti, ogni anno, più elettricità di nazioni come l’Argentina o la Svezia, e per oltre il 60% si tratta di energia prodotta da fonti fossili, e quindi altamente inquinanti. È per questo che di recente Greenpeace e altre organizzazioni ambientaliste hanno lanciato una campagna che chiede di trasformare i bitcoin in una moneta digitale più green. Lo slogan dell’iniziativa è “Change the Code, Not the Climate” (cambiamo il codice, non il clima), e punta a modificare il software che tiene in piedi questa criptomoneta e ridurne così l’impatto ambientale. Per capire in che modo, e quali potrebbero essere le conseguenze, serve un breve ripasso sul loro funzionamento, e su cosa li rende oggi tanto inquinanti. 

Come funzionano i bitcoin

I bitcoin sono una valute virtuale. Non hanno un’esistenza fisica o una controparte fondata su valuta reale. Non sono regolati da alcuna autorità bancaria, e questo vuol dire che non esistono costi o tasse sulle transazioni, e che chiunque può utilizzarli per acquistare quello che vuole da qualunque persona disposta ad accettarli come forma di pagamento. Non avendo una controparte fisica o un’autorità centrale che regoli le transazioni, devono utilizzare un altro mezzo per eliminare il rischi di frodi. Quello sviluppato dal loro inventore, un misterioso personaggio conosciuto solamente con l’alias Satoshi Nakamoto, si basa sul blockchain, cioè su un registro condiviso con tutti i computer che compongono una rete, in cui si tiene traccia tutte le transazioni di bitcoin. Le informazioni sono crittografate e organizzate in blocchi. All’incirca ogni 10 minuti, un nuovo blocco contenente l’aggiornamento delle transazioni viene aggiunto in coda a questa catena virtuale, e condiviso con tutti i nodi della rete. In questo modo, è possibile verificare in ogni momento la proprietà di ogni bitcoin, e ogni transazione in cui è stato coinvolto, evitando il rischio di frodi.

Per validare e registrare un blocco, un computer collegato alla rete deve risolvere un complesso rebus matematico che richiede un’enorme potenza di calcolo. In cambio, il primo che ottiene la soluzione, e aggiunge quindi il nuovo blocco alla block chain, riceve in premio dei bitcoin. Il processo viene definito “mining”, ed è alla base dell’intera infrastruttura virtuale su cui si regge la criptomoneta. Nella pratica, consiste nel tenere accessi enormi centri di calcolo in costante competizione tra di loro, impegnati in calcoli matematici complicatissimi che servono unicamente a garantire l’affidabilità delle transazioni effettuate con i bitcoin. 

Quanto inquinano i bitcoin?

Il sistema è pensato per rendere i calcoli necessari per minare i bitcoin più complessi in base alla quantità di computer che competono per risolverli. Inizialmente, bastava il computer di casa per minare bitcoin. Con la popolarità che hanno raggiunto oggi, con circa un milione di miner attivi, per guadagnare qualcosa è necessario avere a disposizione un’enorme potenza di calcolo, e milioni di euro di investimenti nell’hardware che la rende possibile, e nelle strutture necessarie per tenerlo in funzione. La produzione di bitcoin si è trasformata così in un uragano ambientale in continua espansione, che spinge costantemente verso l’alto i consumi energetici e la produzione di rifiuti elettronici (derivanti dal consumo di microprocessori) necessari per tenere in piedi la criptomoneta. 

Un team di ricerca di Cambridge stima che le operazioni di mining nel mondo consumino 121,36 terawattora di elettricità ogni anno. Una quantità di energia superiore a quella consumata da nazioni come l’Argentina, la Svezia o la Norvegia. E pari a poco meno della metà di quella utilizzata da una nazione come l’Italia (i consumi annui da noi si aggirano attorno ai 300 terawattora). L’impatto ambientale di simili consumi elettrici dipende ovviamente dalla fonte utilizzata per produrre l’energia. Ma si ritiene che nel caso dei bitcoin molta arrivi da impianti alimentati con carburanti fossili. Ci sono casi di società di mining che hanno acquistato vecchie centrali elettriche a carbone, rimettendole in funzione per produrre l’energia necessaria per i loro centri di mining. E alcune stime recenti parlano di circa 65 megatonnellate di anidride carbonica prodotta ogni anno per minare bitcoin, una cifra che renderebbe l’ìmpronta ambientale dei bitcoin pari a quella di una nazione come la Grecia. 

Si possono rendere sostenibili

Vista la situazione, si chiede da tempo e da più parti di ridurre i costi energetici e l’impatto ambientale dei meccanismi che regolano la produzione e la validazione dei bitcoin. Le alternative, d’altronde, esistono. Ed è qui che entra in gioco la nuova campagna di Greenpeace: la richiesta è infatti quella di cambiare il codice del software su cui si basano i bitcoin, scegliendo un metodo di validazione della blockchain che riduca i consumi energetici della criptomoneta.

Una delle possibilità è quella di adottare un sistema diverso dal “proof of work” usato oggi dai bitcoin. L’alternativa si chiama“proof of stake”, un approccio già utilizzato da alcune valute virtuali minori, che sta per essere adottato anche da ethereum, un altro dei big player nel mercato delle criptomonete. Nel proof of stake invece di risolvere complessi rompicapi si compete in una riffa, in cui i miner investono criptomonete per comprare dei biglietti virtuali, e al vincitore va un premio in criptomonete e viene rimborsato l’investimento fatto per partecipare. Basterebbe scegliere un sistema simile, ugualmente sicuro e molto meno inquinante, per ridurre significativamente l’impatto ambientale e i consumi energetici dei bitcoin. Ethereum ad esempio ritiene che una volta completata la transizione (prevista per il 2023), il nuovo sistema abbatterà di oltre il 99% la quantità di energia elettrica utilizzata dalla sua criptomoneta.  

Cosa impedisce a bitcoin di seguire una strada simile? La difficoltà principale è convincere la comunità dei miner, che deve votare ogni proposta di modifica del software perché venga implementata, e deve poi scegliere di utilizzare la nuova versione aggiornata del software. Ed esiste una ragione banale per cui sarà difficile vedere un simile cambiamento: i principali attori nel mondo dei miner hanno fatto investimenti milionari in hardware che si rivelerebbero inutili cambiando i meccanismi di validazione della blockchain. Che la maggioranza dei miner decida di svalutare i propri investimenti è pressoché impossibile. Senza una forte mobilitazione internazionale (o una messa al bando diffusa del mining  sulla scia di quanto fatto dalla Cina lo scorso anno) è quindi difficile immaginare che i bitcoin si trasformino in una moneta virtuale green, almeno nel prossimo futuro. 

In Evidenza

Potrebbe interessarti

Parte la campagna di Greenpeace per rendere sostenibili i bitcoin

Today è in caricamento