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Sabato, 20 Aprile 2024
Catastrofi naturali

La "cicatrice" del terremoto: la terra spaccata per 300 chilometri

L’enorme quantità di energia liberata dal sisma si stava accumulando da secoli lungo la faglia, come aveva predetto uno studio dello scorso anno dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia

Una cicatrice di 300 chilometri, lungo la quale la terra stessa ha cambiato forma. Per notarla, basta uno sguardo alle foto scattate dai satelliti prima e dopo il disastro, in cui la deformazione del terreno è chiaramente visibile: una spia degli inesorabili processi tettonici che hanno scatenato il terremoto che lo scorso 6 febbraio ha devastato i territori posti al confine tra Siria e Turchia, uccidendo (ad oggi) oltre 20mila persone. “Le due placche, quella Arabica e quella Anatolica, si sono spostate di tre metri, ma l'energia liberata dalla faglia ha causato una deformazione molto forte lungo 300 chilometri”, ha spiegato all'ANSA Aybige Akinci, sismologa dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv). “Da oltre mille anni non c'erano terremoti così importanti – ha aggiunto l'esperta – sono zone nelle quali ci si aspettava che sarebbero avvenuti terremoti, ma se è possibile capire dove potrà avvenire un terremoto, è impossibile prevedere quando avverrà”.

L’intera regione anatolica, d’altronde, è posizionata in una zona estremamente attiva dal punto di vista tettonico. In quel punto della crosta terrestre si incontrano infatti la placca arabica, quella africana e quella euroasiatica. Il blocco anatolico si trova compresso dalla convergenza tra Arabia ed Eurasia, e a partire dal pliocene questo processo ha provocato la sua estrusione verso ovest, lungo due faglie: quella nord-anatolica, più attiva sismicamente negli ultimi secoli, e quella est-anatolica, dove è avvenuto il terribile terremoto degli scorsi giorni.

Proprio la relativa inattività sismica della faglia est-anatolica rappresentava la spia che qualcosa di catastrofico, purtroppo, bolliva in pentola. Lo spostamento delle placche genera infatti energia, che si concentra lungo le faglie. E se questa energia non trova sfogo con un terremoto (o attraverso altri processi geologici), si accumula, pronta a scatenarsi con potenza sempre maggiore quando la faglia arriverà, prima o poi, a fratturarsi. È esattamente quando segnalava, ad esempio, uno studio pubblicato lo scorso anno su Earth-Science-Reviews da un team di ricercatori dell’Ingv, dell’Università di Milano Bicocca e del British Geological Survey.

La ricerca ha analizzato le deformazioni misurabili lungo le fagli anatoliche, legate agli spostamenti delle placche, e le informazioni sulla sismicità dell’area, compilando così una mappa di quello che viene chiamato seismic coupling, o accoppiamento sismico, un valore definito come il rapporto tra i tassi deformativi geodetici (relativi cioè alla superficie terrestre) e quelli sismici. In parole povere, il seismic coupling, espresso di norma in percentuali, ci dice quanta parte dell’energia prodotta dai movimenti  della costa terrestre in una determinata area è stata compensata dall’attività sismica. Valori elevati corrispondono quindi ad aree dove i terremoti hanno già scaricato la maggior parte dell’energia latente; valori bassi possono invece indicare o zone in cui la deformazione delle crosta non ha prodotto l’accumulo di energia, oppure zone in cui la deformazione non è ancora stata compensata sismicamente, e dove quindi si prepara un terremoto sempre più potente.

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Confrontando i risultati con i  i cataloghi della sismicità storica e strumentale disponibili, i ricercatori hanno confermato la presenza di possibili gap sismici, ovvero aree caratterizzate da una elevata probabilità di accadimento di forti terremoti. L’area interessata dalla sequenza iniziata il 6 febbraio si colloca proprio lungo una delle regioni caratterizzate da valori SC medio-bassi. E quindi, evidentemente, dopo migliaia di anni in cui l’energia prodotta dallo spostamento delle placche si era accumulato nella faglia, era purtroppo destinata a liberarla con l’enorme potenza a cui abbiamo assistito lo scorso 6 febbraio.

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