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Fashion pact, come gli stilisti affrontano la crisi climatica

Da Giorgio Armani a François-Henri Pinault, i numeri uno dell’industria della moda si stanno organizzando per porre rimedio alla crisi climatica

Lo scorso luglio 2021 Giorgio Armani è tornato a far parlare di sé e della sua casa di moda. In particolar modo ha fatto sapere i suoi obiettivi a medio-lungo termine in riferimento alla grave crisi climatica che stiamo attraversando. L’azienda ambisce a dimezzare le emissioni di gas serra entro il 2030 rispetto al 2019 e ridurre del 42% le emissioni derivanti dall'acquisto di beni e servizi e dal trasporto e distribuzione.

Tale decisione si inserisce nel programma sottoscritto nel 2019 dal Fashion Pact, documento che sancisce una vera e propria coalizione tra le aziende leader del settore del lusso e del tessile invitate dal Presidente Emmanuel Macron e François-Henri Pinault, Presidente e CEO di Kering, in occasione del vertice del G7 di Biarritz tenutosi dal 24 al 26 agosto 2019.

“Una questione di etica prima ancora che di strategia” ha rivelato Armani, da sempre solidale verso la ricerca e la sperimentazione di alternativi tessili sostenibili, dalla lana al poliestere, fino ad arrivare all’utilizzo della canapa, appositamente coltivata in Emilia Romagna.

Fashion pact: in cosa consiste

Il programma di questo documento è molto chiaro: fermare il riscaldamento globale, ripristinare la biodiversità e preservare gli oceani. Temi che oggi si dimostrano più che mai urgenti e da affrontare in maniera rapida, per porre un cambiamento radicale.

La coalizione nasce dal riconoscimento che solo un'azione collettiva può cambiare l'impatto dannoso sull'ambiente dell'industria della moda. Ma perché è proprio il settore della moda a dover fare dei sacrifici in nome del bene comune? Il Fashion Pact lo spiega prontamente: “L’industria della moda è una delle più grandi, più dinamiche e più influenti al mondo, con un giro d’affari annuo di 1,5 trilioni di dollari. Ed è uno dei settori industriali con l’impatto più pesante: proprio per questo dovrebbe ricoprire un ruolo di primo piano nel passaggio verso un futuro più sostenibile”.

Oggi questa coalizione rappresenta più di 250 brand e si stima circa 1/3 dell’intero settore.

Fur free: stop alle pellicce

Alcuni segnali arrivano anche da altri brand: il gruppo Kering ha avvertito lo scorso 24 settembre che non utilizzerà più pellicce animali. A essi si aggiungono Ysl, brand che era stato messo nelle mire degli attivisti per non essersi ancora adeguato a quella che è una tendenza generale. E infine Brioni e Gucci, la cui decisione era già stata annunciata nell’ottobre 2017. Case di moda che hanno deciso un approccio “fur free” per adempiere al compito previsto dal Fashion Pact.

Questa scelta è considerata da Pinault “coerente con quel che il futuro ci chiede. Le giovani generazioni, giustamente, accettano sempre meno la sofferenza degli animali. Il lusso deve evolvere e tener conto dei cambiamenti della società”. Un segnale sempre più forte di collaborazione per costruire un futuro migliore.

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