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Giovedì, 25 Aprile 2024
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Tyson Fury ancora campione. Quando il destino è scritto nel nome

Il pugile britannico sconfigge ancora Deontay Wilder confermandosi sul trono dei massimi WBC. La prima corona, la caduta, e la volontà di rialzarsi: la storia di un campione e quel parallelismo tra la boxe e la vita

“Nomen Omen”, dicevano i latini, cioè il nome è un presagio. Evidentemente di successo, per lui, e di sventura per chi ha il fegato di interporsi tra il successo e Fury, che infatti venne battezzato come Tyson in onore di “Iron Mike” che furoreggiò sul quadrato nella seconda metà degli 80’s. In quegli anni in cui il papà, conosciuto come John "Gipsy" Fury, salì sul ring come professionista, secondo una tradizione di famiglia portata avanti anche dal cugino Andy Lee che ha vinto il titolo dei pesi medi WBO nel 2014.

Nato il 12 Agosto 1988 a Wythenshawe, sobborgo nella zona sud di Manchester, Fury nella notte tra sabato e domenica si è riconfermato campione dei massimi WBC nella terza puntata della sfida con Deontay Wilder: prima un pareggio risalente a dicembre 2018, poi la conquista della corona lo scorso febbraio e quindi la difesa del titolo, che ha ulteriormente ritoccato il record del britannico arrivato ora ad un 31-0-1, con 22 successi prima del limite. Il terzo ed ultimo match della saga non ha stavolta regalato immagini inedite nella boxe di livello eccelso (come nel “Fury-Wilder II”, quando il gigante inglese leccò alla settima ripresa il sangue che al suo avversario scivolava lungo il collo), ma ha comunque fornito retroscena gustosi (lo “Sweet Home Alabama”, pezzo dei Lynyrd Skynyrd del ‘74, cantato da Tyson nel pre-match per provocare l’americano originario di quello stato). Ed ha comunque evidenziato una volta di più la solidità di Fury, finito al tappeto due volte nella quarta ripresa ma capace di rialzarsi e di schiantare la resistenza di Wilder, poi obbligato alla resa all’11° round.

Ma, in fondo, la vita di Fury ricalca a grandi linee il match che lo ha confermato sul trono WBC. Anni di andate e ritorni violenti, come quando a fine 2015 sconfisse l’ucriano Volodymyr Klyčko ai punti laureandosi campione del Mondo IBF-IBO-WBA-WBO per la prima volta, ma cadde nella spirale della depressione e gli venne diagnostico un disturbo bipolare. O come quando un uso smodato di cocaina ed alcool lo fece arrivare a pesare 180 chili e nel 2016 spinse la Federboxe della Gran Bretagna a sospendergli la licenza di pugile per dare modo a Tyson di disintossicarsi. Senza dimenticare le vicende legate agli ultimi, travagliati mesi: a luglio il Covid (che lo obbligò a rimandare il “Fury-Wilder III”), e successivamente la nascita della sua sesta figlia, Athena, prematura come lui, che venne alla luce dopo appena sei mesi di gravidanza ed appena mezzo chilo di peso.

Ora il prossimo step è rappresentato dalla riunificazione dei titoli dei pesi massimi, che manca nell’olimpo della boxe dai tempi di Lennox Lewis, nel 1999. Ma Fury dovrà aspettare, considerando che prima - in programma presumibilmente a primavera - ci sarà la rivincita tra il suo connazionale Anthony Joshua e l’ucraino Oleksandr Usyk, il quale ha strappato le corone WBA-WBO-IBF-IBO al britannico quindici giorni fa. E nel frattempo, con ogni probabilità, una sua prima difesa del titolo WBC. Un incontro di boxe da affrontare, parole sue, come si fa con la vita, in cui si cade e ci si rialza. Come la sua piccola Athena nel nosocomio di Liverpool, sopravvissuta dopo una battaglia difficile. E come lui, Tyson, un predestinato col nome che è un tutto un programma. Anzi, un presagio.

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