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Mercoledì, 24 Aprile 2024

Fabio Petrelli

Giornalista

Calcio femminile: il professionismo (da solo) non basta

E’ stata definita la vittoria più bella del calcio femminile, una sorta di data storica per tutte le praticanti, a ogni livello. E in effetti, la lunga progettualità volta a compiere il famoso passo nel professionismo, ha avuto applicazione concreta con l’annuncio e la definitiva base giuridica posta per ufficializzare tale passaggio, frutto di un lavoro prezioso portato avanti negli anni e che ha avuto una decisiva accelerazione in questo 2022. Professionismo, quindi: traducibile nella possibilità data alle atlete di essere adeguatamente retribuite, con contributi previdenziali versati, supporto assistenziale e tutele come ad esempio in caso di maternità. Ma leggibile anche come l’inizio di una sfida, che non si limiti solo a ricollocare correttamente la posizione delle giocatrici. L’oggetto della discussione, infatti, è più che altro rappresentato dal punto raggiunto dal calcio femminile dopo questo storico passaggio. Che è di arrivo, nel ricomprendere nell’universo delle “pro” le atlete, ma anche di partenza nel rilanciare una disciplina meritevole di attenzione non solamente – al pari di molti altri sport minori – in occasione di competizioni di respiro mondiale, come ad esempio accaduto nel caso del campionato mondiale del 2019.

Nell’equiparazione fatta con l’equivalente maschile, però, non ci si può esimere dall’effettuare opportune distinzioni. Le quali non sono traducibili, beninteso, nel posizionare i due universi calcistici su due piani separati come nella separazione tra nobiltà e miseria, tra champagne nobile sbocciato coreograficamente con la sciabola e vino di sottomarca aperto svitando un tappo di plastica. Perché c’è sempre quel fastidioso “però” che spesso accompagna la visione di ventidue atlete che corrono e si danno battaglia sul campo da gioco: congiunzione che viaggia accompagnata dallo stupore in presenza di qualche pregevole giocata (come se effettivamente il talento con pallone sia patrimonio esclusivo maschile), ma a volte anche dal voler rimarcare la distanza che sussiste tra la velocità, l’intensità ed il ritmo raggiunto nelle sfide al maschile, fino a bollarlo come “altro sport”.

Sotto questo aspetto, quindi, il percorso che c’è da fare per superare quei retaggi presenti negli appassionati della disciplina è ancora lungo. Passaggio già effettuato da cultori di altri sport, pienamente consapevoli – ad esempio – che tale spettacolo offerto non prevederà atlete che staccano dalla lunetta e vanno a schiacciare a due mani, o che servono a 253 chilometri all’ora piuttosto che volare a otto metri e mezzo in pedana. Ma che apprezzano, pertanto, la bellezza della giocata, la qualità del gesto tecnico e atletico, prodezze balistiche e tatticismi, senza distinzioni di genere. E soprattutto senza nessun "però" o accostamenti alla versione maschile, né espressioni di comprensione ed accondiscendenza in presenza di una topica (quasi a voler premiare l’impegno o il coraggio) o dell’evidente gap figlio di una genetica diversa che non porterà mai una top player a volare a 37 all’ora palla al piede come il miglior Robben, Mbappé o Cristiano Ronaldo.

Si parlava di punti di partenza. Il processo volto ad eliminare definitivamente quell’aura di “esclusività maschile” che ha sempre avuto il calcio, ora anche a livello contrattuale, ha imboccato una giusta direzione, in linea peraltro con quanto è già stato fatto da tempo in altre federazioni continentali. Ma procedere a passo spedito nell’abbattere le ultime barriere, e con esse anche stereotipi e pregiudizi, significa anche permettere che la versione in rosa diventi “pro” non solo nei diritti – sacrosanti - garantiti da questo epocale passaggio. Utopistico, al giorno d’oggi, pensare di arrivare alle oltre 90 mila presenze del Camp Nou in occasione della semifinale femminile di Champions tra il Barça ed il Wolfsburg. Molto più percorribile, intanto, concedere visibilità mediatica, formare tecnici a livello giovanile per permettere di avvicinare un numero sempre crescente di giovani atlete alla disciplina, sfruttando ad esempio strutture già fruibili dai vivai maschili. Ma, prima di tutto, pensare seriamente che quella femminile sia l’altra metà del cielo calcistico e non un semplice scorcio da ammirare, di quelli buoni per scattare un’istantanea e nulla più. Lo diceva D’Azeglio sull’Italia e sugli italiani, ma calzerebbe a pennello per questo mondo: fatto il calcio femminile, bisogna fare le calciatrici. Ma anche gli italiani che siano in grado, tout court, di apprezzarlo.

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