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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Calcio

Rayo Vallecano: la classe operaia va in Paradiso

La terza squadra di Madrid, dietro Real ed Atletico, sale al sesto posto in classifica, ma dietro al risultato sportivo c'è la storia di una comunità fortemente legata a squadra e società, e permeata da un forte senso di solidarietà

In una delle capitali del calcio mondiale, quella Madrid in cui dominano il candore della camiseta blanca del Real e le strisce biancorosse dei Colchoneros dell’Atletico (a richiamare il motivo presente sulla fodera dei 'materassi' realizzati dopo la Guerra Civile Spagnola), c’è anche un terza via per professare una fede calcistica. Lontana dai riflettori perennemente accesi ad illuminare bacheche piene di trofei, avulsa da un contesto cittadino ridondante di campioni capaci di scrivere pagine importanti nel romanzo del calcio mondiale, eppure orgogliosamente fiera nel rivendicare la sua diversità. Perché il Rayo Vallecano non si tifa, al Rayo si appartiene. E non è la stessa cosa.

Nata nel 1924, maglia bianca con striscia trasversale rossa che ricorda la casacca del River Plate a simboleggiare, appunto, il “Rayo” (la folgore), la squadra madrilena sta vivendo una delle stagioni migliori della sua storia in Liga - a cui ha partecipato dodici volte (la prima nel 1976/77) con un reiterato saliscendi dalla Segunda Division – certificato da momentaneo un sesto posto che la colloca tra le pretendenti per un posto nelle competizioni europee. A cui ha partecipato una sola volta, nella stagione 2000/2001, arrivando peraltro dai preliminari fino ai quarti di finale della Coppa Uefa – battuta nel derby iberico dall’Alaves – che l’ha vista inserita nel tabellone grazie ad una wild card frutto del premio fair-play. Un piccolo miracolo sportivo per un club che si sostenta con prestiti, rilanciando giocatori svincolati, rivitalizzando quelli nella parte finale di carriera (come Radamel Falcao, ex Atletico e cinque centri in otto presenze quest’anno o come accadde a metà anni ‘90 col messicano Hugo Sanchez, stella delle “merengues”) e attingendo dal serbatoio di un settore giovanile florido.

Ma tifare Rayo Vallecano, o meglio “Essere del Rayo” è qualcosa di più, che va oltre il risultato, come si legge in uno degli striscioni del quartiere che recita “Non ci interessano gli avversari, né la categoria”. C’è la ieraticità nel presenziare alle partite interne in uno stadio, il Campo de Fútbol de Vallecas, distante anni luce dalla maestosità dei cugini benestanti Bernabeu o Wanda Metropolitano, con appena 15mila posti ed in passato anche location di eventi musicali di prim'ordine (negli anni ‘80 si esibirono Bob Marley e i Queen). C’è l’appartenenza al “barrio”, cioè a Vallecas, quartiere più popolare della città, zona poco turistica e molto operaia annessa amministrativamente a Madrid solo nel 1950 e distante una ventina di chilometri dal centro, col più alto tasso di disoccupazione della città ed il reddito pro capite più basso. C’è la connotazione fortemente “mancina” della curva, che durante gli anni del “franchismo” ha assunto una posizione di aperto contrasto con quel regime che simpatizzava per il Real, ed ora regno dei “Bukaneros”, gruppo di tifosi nato nel 1991.

Ma soprattutto c’è quello spirito di solidarietà, quella comunione di ideali che fa assumere alla “Folgore” un’aura particolare, che compatta squadra e barrio creando un legame indissolubile. Testimoniato dai giocatori presenti nella turnazione dei volontari alla mensa degli indigenti (impegno che costò durante una cena il taglio di un dito al difensore Antonio Amaya, che prestava servizio come aiuto cuoco), ma anche dalla mobilitazione verso chi aveva bisogno di aiuto. Come Wilfred Agbonavbare, portiere nigeriano al Rayo dal 1990 al 1995, stabilitosi a fine carriera a Puente de Vallecas e ridotto in povertà per garantire costose cure alla moglie poi deceduta: scomparso anch’egli di tumore, nel 2015 ad appena 48 anni, venne garantita ai suoi figli la possibilità di volare dalla Nigeria a Madrid per rendere al padre l’ultimo saluto. O come Carmen Martin Ayuso, 85 anni, simbolo del quartiere, che venne economicamente aiutata dalla curva e dalla comunità tutta per evitare l’esecuzione del provvedimento di sfratto a suo carico. La donna non solo non lasciò la sua abitazione, ma utilizzò una parte del denaro messo a sua disposizione per aiutare i figli di Agbonavbare. Perché “Essere” del Rayo - non tifarlo - significa anche essere speciali.

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