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Venerdì, 29 Marzo 2024

Fabio Petrelli

Giornalista

Mouforia europea: come Josè è diventato Re di Roma

Nel libro di Giancarlo De Cataldo, poi trasposto cinematograficamente, veniva in maniera esplicita sottolineato come la capitale non volesse capi, o padroni, perché Roma, di re, ne aveva già avuti sette. Nel Romanzo Calcistico giallorosso, ben diverso da quello “Criminale” sanguinoso e violento, la figura di un leader capace di un unire un intero popolo come quello romanista, è stato invece salutato come un vero toccasana. Una presenza forte, carismatica, divisiva al di fuori dei confini tracciati dal tifo di parte, ma in grado di compattare dietro di sé un’intera “gens”, accomunata dalla passione e dall’amore verso quei colori.

Ecco perché José Mourinho, al suo arrivo a Roma, o meglio nella Roma, aveva già ottenuto la sua prima vittoria. Quella di riaccendere le speranze giallorosse di tornare protagonisti, compatti al fianco di una figura di riferimento come, per esempio, lo era stato Francesco Totti, “lider maximo” di una squadra e capitano negli ultimi trionfi italiani e poi passato dagli scarpini alla cravatta per sopraggiunti limiti di età.

A Josè da Setubal, subito a suo agio nel suo nuovo look italiano dalle tinte molto più solari rispetto al nero e l’azzurro che lo hanno vestito quindici anni fa, sono bastate presenza, sincerità (non ha mai alzato esageratamente l’asticella al momento di indicare gli obiettivi, rimarcando più volte la maggiore importanza della progettualità condivisa con la dirigenza) ed un tocco di sapiente piaggeria (quel “Daje Roma” il giorno della presentazione, che tanto assomiglia al “son mica pirla” nel contesto milanese) per conquistare un intero popolo. Oltre, ovviamente, al miglior repertorio sciorinato nei mesi seguenti, più nelle conferenze stampa che in campo, più nelle vesti di straordinario comunicatore e condottiero che di semplice allenatore: negli attacchi frontali – qualche volte, concesso, pienamente comprensibili – alla classe arbitrale, al palazzo reo di non dare al club il giusto peso, ai giocatori responsabili della goleada norvegese di Bodo ed alla mentalità di una formazione che steccava gli appuntamenti importanti.

Ma c’è una cosa che Mourinho, a prescindere dal palcoscenico in cui si è esibito, più o meno prestigioso, ha sempre fatto: vincere. Non gli è stato esplicitamente chiesto, né da una società che lo ha aveva individuato come uomo giusto per la rifondazione e non per un “instant win”, né da i tifosi disposti per amore a perdonare i primi sei mesi di campionato in cui il gioco sembrava ingolfato ed i risultati arrivavano a singhiozzo. Ma lui lo ha fatto: riadattando le sue convinzioni tattiche (costante ricorso ad una difesa a tre), pescando dal serbatoio del vivaio (Zalewski, ma non solo), centellinando le risorse a sua disposizione e risalendo la china in Italia a suon di risultati utili e trasmettendo al gruppo il suo cannibalismo europeo, il suo essere “risultatista” quando serve senza concessioni all’estetica, quando il dentro-fuori della logica di coppa è il bivio che separa il traguardo dall’uscita di scena.

Se, però, in campo è possibile trovare analogie nel modus operandi delle squadre che lo hanno issato sul tetto d’Europa, quello che sinceramente ha colpito di più è stata l’apertura del suo personale portafoglio delle emozioni nei momenti successivi alle recenti vittorie. Così distante dal medio esposto a Manchester dopo la qualificazione del suo Porto, dall’indice mostrato correndo al Camp Nou dopo il passaggio del turno dell’Inter, dalla “combo” delle dita dietro l’orecchio come a Torino: stavolta sono lacrime, di gioia, di tensione che si scioglie, già dopo l’1-0 al Leicester all’Olimpico così come a Tirana. Immagini forti, quasi estranee ad un personaggio che quelle emozioni le sa trasmettere, le fa vivere, ma che con ogni probabilità ha saputo interiorizzare e metabolizzare l’amore e l'affetto con cui il popolo giallorosso lo ha sin da subito sommerso, restituendolo non solo sotto forma di un titolo che mancava da lustri, ma anche con un sincero pianto che dice molto, se non tutto.

Resterà, il Mou. E non potrebbe essere altrimenti. Entrare nel cuore della gente della Roma è stato istantaneo, ma quel tragitto si è compiuto anche in direzione contraria, nel segno della reciprocità. La Roma degli anni di piombo, del “Romanzo Criminale” non voleva padroni, perché “di Re ne ha già avuti e sono tutti finiti male”. La Roma calcistica giallorossa lo ha già incoronato due volte: per amore incondizionato ed ora per la Conference vinta, per una bacheca tornata a riempirsi. E chi “sperava de morì prima”, ora, ha José I°: un buon motivo per rimandare l’appuntamento.

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