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Venerdì, 29 Marzo 2024
Tokyo 2020

Il costo di una medaglia olimpica: perché molti atleti italiani sono delle forze armate

Dai campioni più recenti come Marcell Jacobs e Gimbo Tamberi a storici del calibro di Juri Chechi e Valentina Vezzali, molti sono arruolati in corpi dello Stato. Si tratta di un'antica tradizione italiana, nata per diversi motivi

Dedizione, costanza, disciplina, rigore. E disponibilità in termini di tempo e di denaro: diventare atleti olimpici è un percorso lungo e complesso, quasi più che vincere l’agognata medaglia, un’impresa che per molti campioni inizia da giovanissimi e comporta sacrifici e rinunce in favore di trasferte e allenamenti. È anche per questo che molti atleti italiani fanno parte delle forze armate o dei corpi di polizia, una caratteristica che riguarda prettamente l’Italia e che affonda le radici nel passato.

All’indomani dalla chiusura delle Olimpiadi di Tokyo, Giochi che hanno portato in Italia ben 40 medaglie - un numero mai registrato prima - con l’entusiasmo cresce anche la curiosità, in particolare su come gli atleti riescano a diventare campioni olimpici, e sul perché molti facciano parte di Esercito, Polizia di Stato, Guardia di Finanza, Aeronautica Militare, Marina Militare, e ancora  Arma dei Carabinieri, Vigili del Fuoco, Polizia Penitenziaria. Questo accade soprattutto per chi gareggia nelle discipline che fanno parte del macrogruppo dell’atletica: Marcell Jacobs, “l’uomo più veloce del mondo” e vincitore di due ori (100 metri piani e 4x100 insieme con Lorenzo Patta, Fausto Desalu e Filippo Tortu) e Gianmarco "Gimbo" Tamberi, oro nel salto in alto, sono entrambi arruolati nelle Fiamme Oro, il gruppo sportivo della Polizia di Stato. Come loro anche Massimo Stano, altro oro nella marcia, e Viviana Bottaro, bronzo nel karate.

I numeri e gli "atleti militari" di Tokyo 2020

Antonella Palmisano e Filippo Tortu, oro rispettivamente nella marcia femminile e nella 4x100, soni invece arruolati nei gruppi sportivi delle Fiamme Gialle, e cioè della Guardia di Finanza, e l’elenco si allungherebbe moltissimo se si prendessero in considerazione anche le Olimpiadi precedenti: tanto per citare alcuni nomi famosi, ai tempi delle loro imprese olimpiche Aldo Montano a Clemente Russo erano arruolati nella Polizia Penitenziaria, Valentina Vezzali nella Polizia di Stato, Jury Chechi un vigile del fuoco.

A Tokyo 2021 hanno gareggiato 129 atleti delle Forze Armate su un totale di 384 italiani, circa un terzo del totale: di questi, 47 fanno parte dell'Esercito Italiano, 14 della Marina Militare, 30 dell'Aeronautica Militare e 38 dell'Arma dei Carabinieri. A loro si sono aggiunti 72 atleti della Polizia di Stato, che hanno gareggiato in 19 discipline, e la lista si allunga con quelli di Vigili del Fuoco e Penitenziaria.

Gli sportivi in divisa insomma sono centinaia, specializzati nelle discipline più disparate, dalla scherma al nuoto passando per atletica, arti marziali, rugby (specialità, questa, della polizia), pugilato. Gli atleti si allenano nei centri sportivi dei vari corpi che sorgono in diverse zone d’Italia, e lo stipendio è pagato dallo Stato, cosa che ha più volte stimolato il dibattito: c’è chi si chiede se sia giusto che il loro stipendio venga pagato per praticare sport, visto che per diventare campioni olimpici gli allenamenti risucchiano la maggior parte del tempo, e c’è invece chi sottolinea come, senza il supporto delle forze armate e in generale dello Stato, soprattutto gli sport “minori” non avrebbero finanziamenti a sufficienza per formare le eccellenze.

Come si diventa atleti militari

Ovviamente anche tra gli atleti in divisa ci sono differenze a seconda del corpo di appartenenza: i “gruppi sportivi militari” sono quelli formati da atleti che provengono da Esercito, Marina, Aeronautica e Carabinieri, ci sono poi gli atleti che fanno parte di corpi dello Stato ma che non dipendono dal ministero della Difesa. E dunque Polizia di Stato e Penitenziaria e Vigili del Fuoco. Sino a qualche anno fa anche la Forestale rientrava in questa sottocategoria, prima della soppressione del Capo Forestale dello Stato e l’accorpamento ai Carabinieri Forestali.

A prescindere dall’appartenenza, il percorso per la stragrande maggioranza di questi atleti è lo stesso: la partecipazione a un concorso che i vari corpi riservano proprio agli atleti, spesso chiedendo certificazioni del Coni per certificare i vari livelli, e poi l’arruolamento nei vari gruppi sportivi. Solitamente il contratto è come volontari in ferma prefissata per quattro anni, e una volta superato il concorso gli atleti vengono arruolati nei vari gruppi sportivi e iniziano l’addestramento. Lo stipendio è uguale a quello di chi lavora nelle forze armate, ma l’attività principale è l’allenamento, svolto principalmente nei centri sportivi dei vari corpi. Gli stessi allenatori sono, quasi sempre, atleti militari o appartenenti a corpi dello Stato a loro volta: non è un caso, perché gli atleti, una volta arrivati al culmine della carriera sportiva, quasi sempre restano nel corpo in cui si sono allenati e nel circuito sportivo.

Questa tradizione prettamente italiana - all’estero accade con meno frequenza, anche se nel dibattito di cui si parlava prima vi sono spesso riferimenti  ai gruppi sportivi sostenuti da Unione Sovietica e Germania dell’Est durante la Guerra fredda - è antichissima. E già alle Olimpiadi del 1908 di Londra un atleta militare vinse una medaglia d’oro nella lotta greco-romana: Enrico Porro era un marinaio del cacciatorpediniere Castelfidardo della Regia Marina.

Cosa succede agli altri atleti (e quanto costa diventarlo)

Il motivo abbiamo iniziato a dirlo poco sopra, ed è prettamente economico, oltre che legato all’addestramento e alla disciplina. Se per sport più “mainstream” come calcio, basket o tennis le società sono più ricche e tendono a fare maggiori investimenti, in altri sport le risorse e l’esperienza, oltre che gli strumenti e le capacità, le mettono quasi sempre le forze armate. Che in cambio ottengono lustro annoverando tra le fila campioni olimpici cresciuti soprattutto grazie a loro.

È possibile, insomma, diventare campione olimpico (in discipline che non siano “pop”) senza arruolarsi? Sì, ma più difficile. Alcune società private hanno in effetti cresciuto talenti enormi: è il caso del Circolo Canottieri Aniene di Giovanni Malagò, club sportivo d’élite di campioni come Federica Pellegrini e più di recente la giovane promessa del nuoto, bronzo a Tokyo, Simona Quadarella. Altre discipline come la ginnastica nelle sue varie declinazioni - artistica e ritmica tanto per citare le due più famose - hanno una propria Federazione che gestisce e allena gli atleti: nel caso della ginnastica, la Federazione Ginnastica d’Italia, affiliata alla federazione interazione e all’Unione Europea di Ginnastica e riconosciuta dal Coni, che si appoggia alle Scuole di Ginnastica riconosciute, che a loro volta si occupano di formare gli atleti e affermarli in ambito regionale, nazionale e internazionale.

Chi punta a diventare atleta professionista e a formarsi per arrivare sino alle Olimpiadi, dunque, deve prima di tutto entrare in una società riconosciuta dal Coni che possa (e voglia) investire su di lui, iniziando sin da giovanissimo ad allenarsi per partecipare alle varie competizioni: locali, regionali, nazionali e internazionali, giovanili e poi senior. Il percorso è lungo e costoso da diversi punti di vista, e comporta sacrifici che spesso riguardano l'intero ambito familiare. Non è un caso, dunque, che membri della famiglia siano spesso coinvolti nella formazione e diventino parte attiva della carriera sportiva dei figli. In alcuni casi, rinunciando a tutto il resto. Negli Stati Uniti in particolare è "comune" che i genitori di atleti di altissimo livello diano fondo a tutte le risorse economiche per sostenere i costi legati alla carriera sportiva, principalmente a carico delle famiglie. È accaduto ai genitori del campione di nuoto Ryan Lochte e della ginnasta Gabby Douglas: per pagare allenatori, attrezzatura, trasferte hanno dovuto vendere casa, o addirittura dichiarare bancarotta. E l'investimento non è sempre ripagato, perché non tutti arrivano al traguardo (in tutti i sensi).

Il vero ritorno economico, spesso, è in termini di sponsorizzazioni e copertura mediatica legata alla propria immagine. Accade non solo negli Stati Uniti, ma anche in Italia: l'esempio numero uno è Federica Pellegrini, che a Tokyo 2020 ha chiuso la sua straordinaria carriera da regina del nuoto italiano ma già da tempo si è buttata su altro (televisione compresa).

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