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Venerdì, 19 Aprile 2024
La sfida digitale

La nuova guerra fredda corre sui social

Non solo TikTok, da anni i nuovi confini corrono anche sul web. Dalla “Grande muraglia digitale” cinese all’internet sovrano russo, fino al contrasto tra USA e UE sull’uso dei dati personali, la sfida delle superpotenze riguarda anche l'on-line e coinvolge anche noi

Da passatempo per adolescenti a possibile “minaccia”: è curioso il destino di TikTok, il social network del momento. Ma la scelta della Commissione Europea che, appena qualche giorno fa  ha intimato ai suoi dipendenti di cancellare l'app da tutti i telefoni aziendali, per evitare fughe di dati e consolidare la sicurezza informatica, ha sorpreso in pochi tra gli addetti ai lavori. L’FBI aveva già alzato il livello di allarme a novembre e la decisione ha preceduto di pochissimo anche quella di Canada e Usa che hanno messo al bando l’app cinese da tutti i dispositivi elettronici in dotazione agli uffici governativi.

Il caso è comunque diventato, in breve, la notizia del momento. Parliamo infatti del social ormai più usato dai giovani e dell’app più scaricata globalmente nello scorso anno. Ed è esattamente quello che le autorità di Pechino hanno ribadito, in maniera provocatoria per mezzo del proprio ministero degli Esteri: “in quanto maggiore potenza mondiale, hanno tanta paura di un'app che piace ai giovani”. Il problema è che sembra che piaccia anche molto al governo cinese, per ragioni abbastanza ovvie. 

TikTok e Partito Comunista Cinese

L’app del momento, conosciuta anche come Douyin in Cina, nasce nel 2016 inizialmente con il nome di musical.ly. La capacità di ridisegnare il linguaggio social, puntare su video molto brevi altamente fruibili da un’utenza in fuga dai social basati sul linguaggio testuale, l’hanno reso, nel giro di appena pochi anni, il social più amato dai giovanissimi e sicuramente uno dei più utilizzati al mondo con oltre due miliardi di utenti. Il social è però di proprietà di ByteDance, una società tecnologica globale con sede a Pechino, e non è certo esente da ingerenze. Come ricorda Punto Digitale, esistono due meccanismi molto semplici tramite il quale il Partito Comunista Cinese potrebbe esercitare delle influenze sulla app. In prima istanza tramite la legge cinese sull’intelligence nazionale che richiede a tutti i cittadini e le organizzazioni di partecipare ad attività di intelligence nazionali ed estere. In secondo luogo controllando direttamente una quota considerevole di Beijing Douyin Information Service, la sussidiaria di ByteDance che ne gestisce le attività in Cina.

I partecipanti si riuniscono prima della conferenza stampa del XX congresso del Partito Comunista cinese

Le paure occidentali sono sostanzialmente due: in primis che la Cina utilizzi il social per raccogliere dati personali e utilizzarli per scopi politici, la seconda è che (anche attraverso l’uso di questi dati) organizzi campagne di disinformazione, censura e propaganda, cosa che non costituisce certo una novità.  Ragioni che potrebbero forse portare in futuro a divieti più generalizzati, estesi anche al resto della popolazione. Finora l’unico grande Paese al mondo che ha bloccato TikTok, e molte app cinesi, è stata l’India. Una decisione che ha lasciato molte polemiche relative alla limitazioni della libertà di espressione. Un’alternativa potrebbe essere quella di avere in occidente delle versioni limitate dell’app cinese. A questo riguardo TikTok che ha già avviato una partnership commerciale con Oracle per per garantire l’integrità dei dati dei cittadini americani. È presto per capire gli sviluppi, ma l’impressione è che qualcosa stia cambiando abbastanza velocemente. Del resto, come espresso più volte da Xi Jinping, il controllo dei big data nel nuovo millennio è fondamentale per l’egemonia politica ed economica. E la nuova cortina di ferro tra oriente ed occidente esiste già da anni.

Le nuove cortine di ferro digitali

È stata chiamata “Great Firewall” e ricorda la più celebre Grande muraglia cinese. Parliamo di un insieme di misure legislative e tecnologiche che il Partito Comunista Cinese ha da sempre utilizzato per regolare internet all’interno della terra del Dragone. Ma cos’è un firewall? Utilizzando la definizione di Cisco, una delle aziende leader del settore del networking, possiamo riassumere così: “un dispositivo, software o hardware, per la sicurezza della rete che permette di monitorare il traffico in entrata e in uscita utilizzando una serie predefinita di regole di sicurezza per consentire o bloccare gli eventi”. Semplificando: il governo cinese ha sviluppato una serie di tecniche per nascondere ai suoi cittadini a tutta una serie di contenuti ritenuti “scomodi” e a molti siti web occidentali definiti ostili. In Cina non è così possibile accedere, tra gli altri, a social come Facebook, Twitter o Instagram, molti siti di news occidentali, piattaforme di blogging come Wordpress e motori di ricerca come Google e Yahoo. A queste “inibizioni” la Cina ha risposto con lo sviluppo di siti, app e tool che hanno lo scopo di imitare e talvolta competere con le big tech occidentali. Al posto di Google, ad esempio, c’è il motore di ricerca Baidu, che coinvolge quasi 700 milioni di persone, per quanto riguarda i social (e la messaggistica) sono molto utilizzate chat come Weibo e WeChat.

Ma al di là delle limitazioni alle notizie occidentali e alla libertà personali, quello che il governo di Pechino sta perseguendo da decenni è una via autarchica alla rete, in grado di creare egemonia globale, piuttosto che subirla. Il caso TikTok è solo l’ultimo esempio di una strategia portata avanti da anni. E a conferma che, a dispetto delle nostre legittime preoccupazioni sulle libertà fondamentali, il piano sta funzionando, c’è il caso di Amazon costretto ad arretrare di fronte alla predominanza del colosso dell’e-commerce cinese AliBaba.

Putin in teleconferenza-2

Una dinamica per certi versi speculare si registra anche a Mosca. I social occidentali sono vietati in Russia dallo scoppio della guerra con l’Ucraina. Ma già da prima del febbraio dell’anno scorso, le big tech occidentali non avevano la stessa influenza che hanno da noi. Vkontakte, ad esempio, è di gran lunga il social più famoso del mondo russo, così come Yandex sostituisce tranquillamente Google per molti utenti. Il motore di ricerca americano è stato invitato tralaltro, immediatamente dopo lo scoppio della guerra, a rimuovere le url di migliaia di siti “vietati”, in quanto raggiungibili tramite Vpn. Dal 2012 esiste in Russia una lista di siti web e pubblicazioni on-line non graditi al Governo e dal 2017 strumenti come proxy, Vpn e Tor sono di fatto limitati nelle Federazione Russa.

Tradotto: non c’è un divieto ufficiale di utilizzare una VPN (ovvero una rete privata virtuale), ma non può essere utilizzata per raggiungere siti vietati dalla censura. Nonostante ciò la proliferazione di questi strumenti dall’inizio della guerra è palpabile. Il sogno putiniano, già da prima dello scoppio del conflitto, è sempre stato quello di una internet “sovrana”. Non a caso una legge fondamentale del 2019 si chiama per l’appunto così. Obbliga, tra le altre cose, le aziende di telecomunicazioni installare apparecchiature statali nei punti di scambio del traffico per analizzare e filtrare il traffico, sia all’interno del Paese che al confine russo. L'obiettivo è quello di un firewall che isoli il Paese ermeticamente come avviene in Cina, ma un altro obiettivo fondamentale è quello di non consegnare a paesi terzi quello che è stato definito il petrolio del nuovo millennio: i dati personali dei suoi cittadini.

La gestione dei dati è un problema anche per l’Occidente

Ma il problema dell’utilizzo dei dati personali non è solo oggetto di scontro tra occidente e resto del mondo, ma anche tra alleati come Ue e Usa. È stato Edward Snowden, nel 2013, a sollevare il problema dell’accesso indiscriminato degli Usa ai dati personali (anche) degli europei. Una rivelazione che ha aperto un contenzioso lungo anni tra le due sponde dell’atlantico. Una battaglia portata avanti da uno studente di legge austriaco Max Shrems. Dopo aver avuto le prove dei dati che Facebook aveva raccolto a suo nome, e dopo la rivelazione del programma di sorveglianza di massa Prism, da parte della NSA, sui dati personali di migliaia di utenti internet, il giovane attivista si è rivolto all'authority per la privacy irlandese. Facebook ha infatti il proprio quartier generale europeo a Dublino. La richiesta era quella di vietare il trasferimento di dati personali dall’Irlanda agli Usa, ritenuto un Paese con standard di sicurezza non adeguati. L'istanza è stata rigettata dalla corte irlandese, ma Shrems non si è arreso e si è rivolto in secondo grado alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea che però gli ha dato ragione.

Edward Snowden al Web Summit technology del 2019

La sentenza ha portato, nel 2016, all’applicazione di un nuovo accordo con gli USA, l’”Eu-Us Privacy Shield”. Il nuovo patto ha però scontentato da subito gli attivisti. L’accusa? Ancora una volta non sembravano essere presenti limitazioni per la raccolta di informazioni indiscriminate sui cittadini europei da parte delle autorità americane. E la Corte di Giustizia dell’Unione gli ha dato nuovamente ragione: nel 2020 l’accordo è stato dichiarato non valido.

Una bozza di nuovo accordo è attualmente in discussione e dallo scorso dicembre la Commissione è al lavoro sul tema. I punti critici sembrano comunque essere sempre gli stessi: l’impegno delle autorità americane a limitare l’accesso ai dati personali dei cittadini UE e il rispetto del GDPR europeo, ovvero la regolazione dei dati personali comunitaria che differisce in modo abbastanza evidente da quella statunitense. Le trattative sono andate avanti tutta la scorsa primavera e una nuova proposta dovrebbe vedere la luce presto.

La sensazione è che i nuovi steccati della nuova guerra fredda corrano anche su quella che un tempo era considerata uno spazio senza stati e confini e che la rete abbia perso definitivamente quell’aura di innocenza ingenua che la contraddistingueva all’inizio del secolo. “Don’t be evil” recitava un claim di Google dei primi anni 2000. Abbiamo avuto venti anni per comprendere che sviluppo tecnologico e progresso sono due cose distinte, per citare un grande intellettuale italiano. E che anche il frenetico mondo digitale andrebbe gestito quell’antica disciplina che da millenni regola il nostro vivere collettivo: la politica.

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