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Lunedì, 29 Aprile 2024
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Redazione

Spelacchio è morto e anche l’albero del Papa non si sente molto bene

Spelacchio è morto e anche l’albero di Natale del papa non si sente molto bene. Perchè nella capitale si sa, dove c’è da dileggiare la tracotanza d’ogni forma di potere, i romani non si fanno mai guardare dietro. Tra il tragico e il comico sferzano, graffiano e scoprono le carte ai potenti che vorrebbero beffare il popolo. Allora da piazza Venezia, il cinepanettone all’italiana in salsa botanica attraversa il Tevere. E a quattro anni dall’abete rosso di pentastellata memoria che si era addirittura guadagnato un profilo Twitter satirico tutto suo, si sposta nel cuore della misericordia cristiana. A piazza San Pietro.

Là in mezzo, Francesco ha voluto ancorare ai sampietrini di porfido un altro abete. Sempre rosso. Nell’eterna lotta, tutta romana, tra la grandezza del potere spirituale e la spending review di quello temporale. Sul soglio di Pietro infatti non si scherza. Non è giunto uno spelacchio qualunque, ma un patriarca di 113 anni per 80 quintali e 2 metri di diametro. Che tra i boschi di Andalo, hanno impiegato 12 ore a troncargli la vita. Ci sono voluti i forestali, i vigli del fuoco e il sindaco della cittadina per abbatterlo, legarlo, piegare i dieci metri di chioma verso l’interno e farli rientrare nei tre metri e mezzo consentiti per il trasporto eccezionale. Quello del papa è più alto di quello del sindaco, più fronduto, più anziano, più tutto. Spelacchio ha perso il suo scettro perché il popolo aveva bisogno di un nuovo re. Finchè anche quest’ultimo non terminerà la sua agonia, tra una palla compassionevole e l’altra. Tra un mesetto circa. Un tempo ragionevole per un albero che ci ha messo più di un secolo a crescere, seppellendo due guerre mondiali e la tempesta di Vaia del 2018. E che è stato condannato a morte (lenta) per essere esibito, tutto agghindato di luci trionfalistiche che si accenderanno il 10 dicembre, ai turisti che visitano il cuore della spiritualità cristiana.

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Eppure, l’enciclica “Laudato sì” che ha avviato il pontificato di Jorge Mario Bergoglio come il più green in saecula saeculorum, non prevedeva di preciso di depauperare gli ecosistemi. Piuttosto, recitava testualmente: “Sorella terra protesta per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla. Dimentichiamo che noi stessi siamo terra. Il nostro stesso corpo è costituito dagli elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà il respiro e la sua acqua ci vivifica e ristora”.

Dogma della fede? Niente affatto, dal punto di vista biologico non fa una piega. Oltre al fatto che le radici di un albero mitigano il dissesto idrogeologico, le foglie sequestrano carbonio, danno cibo e rifugio a diverse specie di animali. E formano comunità vegetali, i cui componenti comunicano sotto terra per mantenere l’equilibrio chimico del suolo. E molte altre amenità che parrebbe fin ridondante scrivere. Perché intorno all’albero del Papa, non si confondano i sentimentalismi con le contraddizioni. Come quella che ci tiene a ricordare che “l’abete proviene dalla Gestione Forestale Sostenibile PEFC certificata”. Dunque, se “Laudato sì” è la versione spirituale della più profana “transizione ecologica”, allora siamo proprio nelle mani del Cielo. Perché da quaggiù, è tutto.

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