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Sabato, 27 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Case popolari o case del popolo?

In uno di quei libriccini di testi delle canzoni di Bob Dylan da cantare in spiaggia così di moda tra gli anni '60 e '70 il traduttore della versione italiana a fronte decide forse preso dalla fretta che «Housing Project» significa «Progetto Urbanistico». Tradurre è un po' tradire come sappiamo, e qui il probabilmente sottopagato fan del Menestrello di Duluth alle prese con il chilometrico dispiegarsi di versi poetici di Desolation Row per quella riga tra tante decide appunto di tradire ma solo un po': resta alla lettera il Progetto mentre scompare il riferimento alle case «Housing» che diventano solo urbanistica, cioè edifici strade verde, un quartiere insomma, ma qualificato in modo molto generico. In fondo bastava scorrere un paio di righe e versi successivi dove Dylan parla di emarginazione riscatto mettersi in gioco, per capire che quello Housing Project si poteva tranquillamente tradire in un altro modo scrivendo «Case Popolari». Che nella lingua italiana corrente, usata dal medesimo popolo che là dentro dovrebbe tirare a campare la propria esistenza, significa alloggi di proprietà pubblica concessi in affitto a canone regolamentato secondo graduatorie di aventi diritto. Alloggi spesso organizzati in complessi-quartieri piuttosto riconoscibili anche all'inclita osservatore casuale per una ragione sottile che riguarda la cultura architettonica novecentesca.

Un po' per forza un po' per coincidenza la casa popolare si incrocia col modernismo avanguardista meccanico e la sua idea di città e di sviluppo. E singolarmente devia salvo tornare ciclicamente verso le complementari forme del villaggio-giardino che ne costituivano sia socialmente che spazialmente le origini. La casa del popolo primordiale, perduta dentro la metropoli industriale, è infatti quella del villaggio ancestrale, l'alloggio familiare che con poche varianti resta lo stesso o identico per tutta la vita, indipendentemente dal tipo di godimento proprietario o meno. Mentre con la modernizzazione meccanica i due percorsi si divaricano: da un lato l'alloggio-cassetto intercambiabile occupato temporaneamente dagli individui-modulor, dall'altro la casetta proprietaria identitaria della famiglia tradizionale. Singolare che proprio i progettisti italiani almeno esplicitamente e nel dibattito teorico ne colgano raramente il senso (come farà invece per esempio la scuola degli «spazi sicuri» di Oscar Newman negli USA). Emblematica la vicenda dei complessi INA-Casa, prodotto architettonico-urbano collaterale di politiche del lavoro liberali e di ricerca del consenso.

Alloggi in proprietà ceduti ai fortunati estratti a sorte in lotteria intendeva il progetto della maggioranza cattolica liberale. Alloggi macchina-urbana da assegnare in affitto ai lavoratori inseriti in graduatorie secondo l'indignata opposizione social-comunista. Questa seconda opzione, vista la forza politica di chi la sosteneva, entrò nel Piano ma senza sostanzialmente modificarne la filosofia: che fossero destinati ad assegnatari futuri proprietari (e quindi ad entrare nel corrente mercato immobiliare) oppure ad ospitare provvisori intercambiabili abitanti in affitto, la quasi totalità degli alloggi del Piano Fanfani seguirà le forme della casetta-villaggio identitaria, familiare, proprietaria. Con l'unica esplicita dichiarata e provocatoria eccezione della «macchina per abitare» progettata da Piero Bottoni in Corso Sempione a Milano. E Bottoni era l'autore materiale del progetto «La Casa a chi Lavora» rielaborazione socialdemocratica di un progetto di epoca fascista corporativa per case popolari in affitto di proprietà pubblica.

Ma ancora oggi tanti studenti o addirittura studiosi del tema della casa economica si riferiscono al Piano Fanfani rimpiangendo un'epoca mirabile in cui si pensava alle «case popolari» e si realizzavano gli ancora godibilissimi villaggi urbani a media densità ricchi di verde e servizi. Ma nessuno che colga la contraddizione tra quelle al loro volta contraddittorie forme e il progetto politico virtuale a cui si riferiscono. Come invece avevano fatto all'alba del '900 gli amministratori della Russel Sage Foundation affidando allo studio Olmsted l'incarico del nuovo quartiere modello Forest Hills Gardens: seguire le forme architettoniche della città giardino senza neppure sfiorarne le evocazioni socialiste, impresentabili nel contesto statunitense al massimo filantropico e solidale. Esattamente come la dottrina sociale della Chiesa ammorbidiva il liberalismo di Fanfani. Ma gli ircocervi urbani dei villaggi INA-Casa tutt'ora abitati da tradizionali famiglie proprietarie trasudano chissà perché umori di «casa popolare». Misteri dell'arte.

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