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Domenica, 28 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Design ergonomico e tecnica burocratica micidiale

Nel design cosiddetto industriale che soprattutto noi italiani usiamo per distinguere la progettazione tecnicamente fondata dall'altra più superficiale ed estetizzante esiste una cura particolare per la prestazionalità. Vale a dire che una volta individuato precisamente lo scopo complesso del prodotto finale tutto ruota coerentemente attorno ad esso condizionando ogni fase dei passaggi dal concetto originario al perfezionamento di dettaglio alla esecuzione e immissione in commercio o socializzazione che dir si voglia. Un criterio buono per giudicare il successo di tantissime cose semplici o meno semplici che ci arrivano sostanzialmente identiche dai decenni in cui verso la fine del XIX e l'inizio del XX secolo ingegneria architettura e altri saperi si sommavano a comporre questa innovativa disciplina degli oggetti d'uso quotidiano. La lampada che usiamo per lavorare o leggere e che ha retto la concorrenza di centinaia di maldestri tentativi di imitazione che non tenevano conto di quanto sia essenziale poterla spolverare o cambiare la lampadina bruciata è l'esempio più classico ella risposta coerente alla domanda: cosa deve fare una lampada? E lei lo fa benissimo. Incluso il rintuzzare le pretese dei concorrenti. Le cose cambiano di poco come metodo se prendiamo l'esempio di cose più complesse soprattutto per quanto riguarda l'interazione degli utenti. La pista ciclabile è una di queste.

Si diceva dell'oggetto semplice lampada maniglia caffettiera di stabilire l'obiettivo con chiarezza tenendo conto dell'utente e mettendo quindi in secondo piano altri «utenti intermedi» ovvero coloro che partecipano al processo produttivo: responsabili della progettazione esecutiva che devono avere chiari i limiti della propria discrezionalità, produttori-assemblatori finali, controllori di qualità o collaudatori che mantengano comunque al centro sempre quel primo obiettivo senza farsi sviare dalle magari pur legittime rimostranze degli intermedi. Con la pista ciclabile il solo fatto che gli utenti si classifichino almeno in tre tipi (ciclisti, automobilisti, pedoni) inizia da subito a confondere le acque dell'obiettivo, ulteriormente intorbidite dall'interferenza di altri relativi sia a chi partecipa a progettazione-esecuzione sia a chi rappresenta qualche aspetto degli interessi dei medesimi utenti. La pista ciclabile, come la lampada è destinata a far efficacemente luce sul tavolo alla bisogna, deve definire un percorso sicuro per chi pedala. Mettersi subito a discutere su cosa voglia dire «sicuro» equivale qui a filosofare sulla dicotomia luce-buio in un negozio di accessori di arredamento. Restiamo all'obiettivo della sicurezza: c'è dove ce ne sono i presupposti, manca (in tutto o in parte) dove non ci sono.

Schematicamente possiamo definire sicuro ciò che non comporta rischi o ne comporta di minimi. Minimo è sicuramente il fastidio o impedimento (per esempio interferenza tra un utente e l'altro) inaccettabile il rischio massimo del danno materiale all'utente. Quindi per esempio una ciclabile dotata di barriere in filo spinato che impediscono l'ingresso salvo che in punti dedicati dovremo classificarla come insicura: rischia di danneggiare non poco il pedone o automobilista che tentassero incontri ravvicinati trasversali, restituendo in cambio poco o nulla al ciclista che ci sta dentro. Spesso la medesima osservazione vale anche per il leggendario cordolo o curb o kerb che dir si voglia, spezzone in pietra o cemento di varie forme e dimensioni che tanti progettisti o rappresentanti degli utenti considerano componente basilare del percorso sicuro senza la quale la pista diventa «finta» o ideologica o specchio per le allodole.

È come dire che un bagno non è igienico senza un certo tipo di portasapone: in generale una sciocchezza, anche se in certi casi e contesti usarlo chiariti gli obiettivi diventa indispensabile. Ma non quando diventa una sorta di dogma e lo si usa proprio ad auto-conferma di aver fatto il massimo possibile per la sicurezza. Quando invece si è fatto l'esatto contrario. Quando il cordolo non è una barriera al pericolo ma un Corral per instradare inesorabilmente il ciclista verso un punto di massimo azzardo per qualunque idea di sicurezza: là dove la pista ciclabile improvvisamente termina scaraventando i malcapitati dentro lo spaventoso frullino del traffico veicolare dove altrettanto di colpo vigono regole comportamentali diversissime da quelle che si stavano seguendo fino a un istante prima. E senza nessun passaggio a livello o campanellino ad avvertirci. Come è successo con esiti diciamo normalmente e prevedibilmente fatali a Piazzale Loreto a Milano pochi giorni fa. E succederà ancora molto in futuro con le medesime meccaniche burocraticamente progettate.

Per riflettere sulle piste ciclabili ci sarebbero tanti tanti tanti ricchi spunti con o senza il magico cordolo o curb o kerb che dir si voglia.

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