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Lunedì, 29 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

La scuola non luogo, la dad e gli architetti

Leggo nella recensione dell'ennesimo volenteroso studio sulla questione periferie italiane, che provando pure per l'ennesima volta a rileggerne la formazione storica, si inciampa nel fatale «sono i progettisti stessi ad aver a suo tempo ideato senza però – questo è il destino di molte opere pubbliche – averne potuto guidare o controllare i processi realizzativi e la successiva gestione. E senza quindi aver potuto contrastare in alcun modo scelte successive ai piani». Concludendone con la dubitativa formula: non bastano gli architetti! E forse vale la pena sottolineare come la recensione sia di uno studioso di discipline sociali urbane, mentre il libro recensito sia una specie di reportage giornalistico delle pratiche di partecipazione locale, osservate da un intellettuale sinora dedicato alla tutela dei beni culturali e del paesaggio, ovvero dei prodotti storici sedimentati della socialità. Che ha evidentemente deciso di misurare questa sua acquisita sensibilità su ciò che sedimentato lo è un po' di meno. Ma che c'entra con la didattica a distanza del titolo? C'entra tanto quanto c'entrano gli architetti, che certo non potevano nelle nebbie progettuali verso la metà del '900 prevedere l'avvento della didattica a distanza. Però potevano, in quel campo come in tanti altri, non fare il medesimo errore di «non poter guidare o controllare i processi realizzativi» ma di comportarsi invece come se potessero. Salvo lamentarsene a latte versato.

Il riferimento è alla «scuola al centro del quartiere» così come viene concepita da gran parte dei progetti di periferie pianificate novecentesche, plasmati sulla manualistica Unità di Vicinato importata dai paesi di più avanzata industrializzazione. Il Manuale parlava chiaro: si stabilisce un certo numero a soglie di abitanti, di conseguenti nuclei familiari su cui modellare gli alloggi, quantificare i servizi essenziali, appunto dalla Scuola dell'obbligo in giù. E poi si passa alla fase fondamentale (fondamentale per gli architetti ma non per tutti come vedremo) di comporre lo spazio secondo i criteri di massima stabiliti dal medesimo Manuale: individuata l'area urbana, di solito perimetrata da strade principali, si tracciano i percorsi secondari, si suddividono i lotti da destinare a edificazione o verde, e poi si distribuiscono le funzioni: al centro la scuola che sarà il nucleo identitario, ed entro un certo raggio da lì le residenze e gli altri servizi.

Quel che di solito sfuggiva ai progettisti tecnici, inopinatamente anche incaricati del progetto sociale anche se a loro parziale insaputa, era che quella scuola al centro identitario diventava una prescrizione solo con alcune premesse di tipo politico, la cui coerenza era tutta da verificare prima, perché anche tutto il resto poi rischiava di crollare. L'intero schema della Unita di Vicinato o quartiere autosufficiente partiva infatti da una premessa-rilevazione: il raggio di circa mezzo chilometro delle abitazioni, o la scuola in mezzo, erano l'universo di riferimento dei cittadini che avevano voglia di andarci a piedi per fare tante cose in tanti momenti del giorno. Perché la scuola su cui erano stati costruiti prima quartieri sperimentali e poi i Manuali per architetti era in realtà molto più e molto altro che non un edificio di aule didattiche più cortile e palestra. Era un vero e proprio prolungamento delle abitazioni e della società locale, dove certo andavano i ragazzini a studiare, ma si svolgevano regolarmente tante altre cose, dalle assemblee, alle attività culturali, sportive, di intrattenimento, per ogni fascia di età e orari. Non certo un guscio chiuso autogestito da docenti e bidelli dove entravano solo i bambini iscritti ed eventualmente i loro genitori se ammessi a parlare di quello.

Anche qualcosa come la didattica a distanza, pur fantascientifica o quasi, nelle brume novecentesche in cui nasce la teoria della scuola al centro del quartiere, poteva assai più organicamente inserirsi nell'insieme delle interazioni sociali complesse, e quasi di sicuro contribuire a modificare in tutto o in parte la forma stessa dell'Unità di Vicinato, nello stesso modo in cui, ad esempio, cambiava la collocazione di tante scuole nel territorio «esploso dall'automobilismo di massa». Ciò non significa certo che oggi, nella congerie dei problemi posti dall'emergenza sociosanitaria, un ruolo diverso socio-spaziale delle scuole nei quartieri avrebbe reso più facilmente praticabile fare didattica online, o l'avrebbe resa meno oggetto del contendere tra società, genitori, docenti, medici, politici, sociologi e via dicendo. Ma se non altro che il progetto spaziale, comportamentale, politico, affidato chissà perché agli architetti anziché a una serie di competenze meno focalizzate su un solo aspetto. Quello che, dentro il quartiere e fuori dal quartiere nel mondo più vasto dei problemi sociali, ambientali, culturali, ha finito per fare della scuola una specie di non luogo, qualcosa di separato galleggiante in una propria bolla, che quando chiede di rientrare in circolo fisiologico si vede sbattere la porta in faccia, non solo per ragioni contabili-finanziarie.

La Città Conquistatrice – Unità di Vicinato

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