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Sabato, 27 Aprile 2024

Il commento

Giulio Zoppello

Giornalista

Brad Pitt: i 60 anni dell’ultimo vero divo

Brad Pitt spegne 60 candeline e questo ci fa sentire tutti davvero vecchi. Pare solo ieri che finiva sui poster appesi in camera di ogni ragazzina del pianeta, ma il ragazzo dell’Oklahoma diventato uno dei volti cinematografici più iconici di sempre, ne ha dovuta fare di fatica per togliersi di dosso lo stereotipo di belloccio fine a sé stesso. La verità è che guardare alla sua carriera, significa fare i conti con un attore che spesso è stato sottostimato, capace infine però di diventare amato tanto dal pubblico femminile quanto maschile, in virtù di un talento, versatilità e un’autoironia incredibili. 

Dagli inizi alla consacrazione dei primi anni '90

La prima fu da comparsa sul set di Hunk, commedia senza sapore del 1987. Lì vi fu il debutto di Brad Pitt sul grande schermo. Passa più di un trentennio e lo ritroviamo con due Premi Oscar all’attivo, sex symbol osannato che invecchia come il vino, produttore illuminato, icona maschile di eleganza. Pitt di base è riuscito non solo a farsi un nome, a sconfiggere il pregiudizio che inizialmente lo vedeva come un “bello che non balla”, ma anche a diventare un attore in grado di spaziare con successo ovunque nella settima arte. Fate un elenco dei registi con cui ha collaborato e vi troverete nomi di primissimo livello, per opere che vanno dal kolossal alla commedia, dall’action al thriller, il film di genere; ma il percorso fu tutt’altro che scontato. Molla la Laurea poco prima della fine, si trova ad inseguire il sogno di Hollywood facendo i lavori più disparati, per anni finisce in apparizioni non accreditate o film che nessuno vede.

Racimola qualche particina in Dallas e film per la Tv, poi nel 1991 la svolta. Thelma & Louise, nei panni di un giovane truffatore rubacuori, lo fa scoprire al pubblico, in particolar modo femminile. Tony Scott, Robert Redford, Sena, Bakshi gli permettono di affinare la sua adattabilità, che però è nascosta da quel ciuffo biondo, dalla fama di teen idol che lo limita quando esplode, in modo allucinante, nel biennio 1993-1994. Finisce infatti in Vento di Passioni, Intervista col Vampiro, Seven e L’Esercito delle 12 Scimmie. Sono 4 assi cinematografici, 4 film completamente diversi che lo fanno diventare sex symbol, il volto nuovo di Hollywood, con cui far dimenticare la scomparsa dell’altrettanto talentuoso River Phoenix. Quasi nessuno ricorda la sua Nomination all’Oscar nel capolavoro di Terry Gilliam, ma la strada è segnata. Brad Pitt diventa il fidanzato d’America, di base lo è ancora oggi.

Ma tale ruolo, tale dimensione, in quegli anni ’90 dove Hollywood si rifà immagine e trucco, diventa inclusiva e meno commerciale, non gli impedisce di variare in modo incredibile rispetto ai cliché che la Mecca del cinema vorrebbe mettergli addosso. Sette Anni in Tibet, SnatchFight Club, L’Ombra del Diavolo, Spy Game, sono diversi dalla facile strada del successo che le Major potrebbero donargli. Perché, ed è questo il punto, Brad Pitt ha sempre scommesso, sempre cercato di andare oltre il prevedibile, usando la sua presenza scenica, la sua bellezza, in modo alquanto atipico.

Un'icona del cinema a metà tra classicità e indipendenza 

La saga di Ocean, dove forma con George Clooney e Matt Damon un trio di sex symbol dediti a distruggere e assieme elevare la propria coolness, è forse l’esempio migliore del percorso artistico di Pitt. Qui è il bonazzo del gruppo, ma gioca col personaggio, recupera la mascolinità charmant, eppure accessibile che fu di Robert Redford e Paul Newman. Perché la verità è che Pitt è e rimane assieme a pochissimi altri della sua generazione (tra cui il da lui detestato Tom Cruise) uno degli ultimi esemplari di movie star, quando non era il personaggio a mangiarti ma tu a mangiare il personaggio. Il che spiega perché odi ancora oggi Troy, dove era costretto a fare la bella statuina per gli ormoni femminili, perché abbia chiesto a Soderbergh di smetterla con gli Ocean, o ancora perché si sia dedicato a personaggi sempre più distanti dal buono o dal bello e dannato.

Terrence Malick, Iñárritu, Dominik, Miller, i Coen sono i registi a cui si lega interpretando canaglie, mariti in difficoltà, banditi, poveri fessi, uomini normali, prima di trovare in Tarantino un feticcio quasi importante come David Fincher. Bastardi Senza Gloria e Once Upon a Time in Hollywood sono la prova più incredibile del suo fiuto, della sua camaleontica capacità di essere caratterista quando serve. Pitt, che non trova pace sentimentalmente parlando, che lotta contro alcolismo e depressione, contro la prosopagnosia, è anche lo stesso che pare non invecchiare mai, che nonostante tutto continua ad essere amatissimo dal pubblico, a non rimanere prigioniero del suo status di icona maschile irraggiungibile. Lui, da tutti indicato già ai tempi di In mezzo scorre il fiume come l’erede proprio di Robert Redford, non appare avere nessuno all’altezza del suo testimone.

Forse solo Austin Butler, guarda caso lanciato dall’ucronia tarantiniana dedicata a Sharon Tate, potrà imitarne le gesta, ma è presto per dirlo. Tutti gli altri stanno dietro, non tanto per estetica, ma per stile, carisma naturale, presenza scenica e soprattutto caratura attoriale. Della sua generazione nessuno ha la sua autoironia e originalità di percorso, nessuno ha saputo farsi a pezzi come ha fatto lui in Babylon, Il Curioso Caso di Benjamin Button, War Machine o Bullet Train. Con Brad Pitt la concezione di divo e anti-divo non sono separate, sono la stessa cosa, sono due lati della stessa medaglia di un attore che è stato capace di superare ogni rivoluzione dell’industria e del pubblico, di diventare qualcosa di diverso, un giovanotto di 60 anni. 

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