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Sabato, 27 Aprile 2024

L'analisi

Giorgio Beretta

Opinionista

Berlusconi e le armi ai dittatori: così ha spianato la strada

"Sarò il vostro commesso viaggiatore". Così il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi si presentò alle maestranze e ai dirigenti di Aermacchi, Alenia e Finmeccanica in occasione dell'inaugurazione dell’aereo militare M-346 nell’ottobre del 2004 a Venegono Superiore (Varese). "Attirerò l’attenzione dei miei colleghi su questo nuovo prodotto della tecnologia italiana all’avanguardia nel mondo. Si prevede di avere ordinativi cospicui. Abbasseremo i costi attraverso la quantità. Basta solo che ci sia una percentuale per il presidente del Consiglio, da devolvere ovviamente a usi condivisi da tutti".

Espressioni folkloristiche, si dirà, tipiche del personaggio. Ma quanto mai rivelatrici alla luce del primo e maggiore ordinativo estero proprio di quei velivoli: la fornitura a Israele di trenta caccia M-346 in versione addestratore, ma adattabili alla versione armata (Fighter Attack). Un'operazione preparata da tempo dal governo Berlusconi (Berlusconi II) attraverso il "Memorandum d’intesa con Israele in materia di cooperazione nel settore militare e della difesa" firmato a Parigi il 16 giugno 2003 ed entrato in vigore l’8 giugno 2005 che prevede, tra l'altro, l'interscambio di materiali d’armamento tra i due Paesi.

La vendita di quegli aerei militari fu di fatto un "interscambio". Nel luglio 2012, quando si realizzò, il contratto sottoscritto da Finmeccanica (oggi Leonardo) prevedeva la fornitura a Israele dei trenta velivoli M-346 prodotti dalla Alenia-Aermacchi in cambio dell'acquisto da parte dell’Italia di due aerei da allerta radar e un satellite militare ottico: il tutto per un controvalore di oltre 900 milioni di euro. Un ottimo affare per l’azienda a controllo statale – che incassò i proventi – mentre i costi per l’acquisto da Israele dei sistemi militari furono pagati dai contribuenti italiani: perfetto esempio di privatizzazione dei profitti a scapito della socializzazione degli oneri.

Il presidente del Consiglio, Mario Monti, in visita ufficiale in Israele nell'aprile 2012, nel dare notizia dell’accordo, definì il contratto "un salto di qualità nelle relazioni tra i due Paesi". Fino a quel momento, Israele era stato un cliente alquanto marginale dell’industria militare italiana. Pesavano, soprattutto, le numerose risoluzioni di condanna nei confronti dello Stato di Israele per le reiterate violazioni dei diritti della popolazione palestinese e araba. Violazioni che, ai sensi della legge 185/1990, dovrebbero costituire motivo di divieto alle esportazioni di armamenti da parte dell'Italia a Israele. Ma “gli affari sono affari” e di questo, lo sappiamo, Berlusconi è stato maestro. 

Armi ai dittatori 

Berlusconi si è distinto non solo per aver sdoganato lo Stato di Israele come partner del commercio militare italiano, ma anche per la sua "diplomazia delle relazioni personali" con alcuni dei più noti autocrati e dittatori. Che non ha mancato di rifornire di armi. 

A cominciare da Muammar Gheddafi. Proprio in occasione della prima visita ufficiale di Gheddafi in Italia, il 10 giugno 2009, veniva rilasciata l’autorizzazione all’esportazione in Libia di 7.500 pistole semiautomatiche PX4 Storm calibro 9x19, di 1.906 carabine semiautomatiche CX4 Storm calibro 9x19 e di 1.800 fucili Benelli modello M4 calibro 12 tutte prodotte dall’azienda Beretta di Gardone Valtrompia. Come ho documentato in un'audizione in una Commissione alla Camera tutte queste armi, custodite nel bunker di Gheddafi a Bab al-Aziziya, furono saccheggiate dagli insorti che nell’agosto del 2011 penetrarono nel compound del rais libico. Non a caso, dunque, l'Italia del governo Berlusconi (Berlusconi IV) tra il 2006 e il 2011 è stata il principale fornitore europeo di sistemi militari alla Libia di Gheddafi.

L'amicizia personale di Berlusconi con Vladimir Putin ha spianato la strada per la collaborazione nel settore degli armamenti tra Italia e Russia. Che ha prodotto il primo contratto nel 2011 (Governo Berlusconi IV) per la fornitura alla Russia di 358 autocarri Lince della Iveco "scomposti", modello M65E19WM protetti e completi di dotazioni proprie, per un valore di 96.660.000 euro: autocarri da assemblare in Russia presso la filiale della Iveco. Gli affari con lo zar russo sarebbero continuati anche con la fornitura di blindati e altro materiale bellico se l’Unione Europea il 31 luglio del 2014 non avesse stabilito l'embargo di armamenti verso la Federazione Russa per l’occupazione militare della Crimea.

Ma, soprattutto, Berlusconi spianò la strada per le forniture militari dell’Italia ad un altro autocrate, meno noto, ma non meno dispotico: il presidente del Turkmenistan Gurbanguly Berdimuhamedow. Accolto in sordina a Roma su "invito personale" di Berlusconi nel novembre del 2009, Berdimuhamedow rassicurò le forniture di gas all'ENI in qualità di  "unica grande società internazionale presente in Turkmenistan". In cambio si impegnò ad acquistare dall’Italia sistemi militari di ogni tipo: dagli elicotteri militari AgustaWestland, ai fucili d’assalto e pistole semiautomatiche della Beretta alle mitragliatrici della Rheinmetall Italia, dai cannoni binati navali della Oto Melara alle munizioni pesanti della MES. Nel giro di una dozzina d’anni, il Turkmenistan è diventato uno dei maggiori acquirenti del "made in Italy" militare: superano infatti il miliardo di euro le forniture di sistemi militari italiani al regime di Berdimuhamedow.

L'erosione della trasparenza

Un fastidio per gli affari di armi con i regimi autoritari è sempre stata la Relazione della Presidenza del Consiglio: ai sensi della legge 185 del 1990, ogni anno la Presidenza del Consiglio deve inviare alle Camere una relazione dettagliata su tutte le operazioni autorizzate e svolte riguardanti l’esportazione di materiali militari. 

Mentre le operazioni svolte dalle ditte produttrici non suscitano particolare clamore (si tratta di aziende che notoriamente producono armamenti), il problema per chi intende fare affari senza troppi lacci a lacciuoli si è palesato nei confronti degli istituti di credito, le banche, attive nella compravendita di armamenti. Stimolati dalla Campagna di pressione alle “banche armate” diversi istituti di credito italiani hanno deciso di darsi delle regole rigorose e limitative per quanto riguarda il settore degli armamenti. 

E’ stato così che nella Relazione inviata al Parlamento dal governo Berlusconi il 30 marzo 2005 a firma di Gianni Letta si leggeva quanto segue. "Altra problematica di alta rilevanza trattata a livello interministeriale, è stata quella relativa all'atteggiamento assunto da buona parte degli istituti bancari nazionali nell'ambito della loro politica di "responsabilità sociale d'impresa". Tali istituti, infatti pur di non essere catalogati tra le cosiddette "banche armate", hanno deciso di non effettuare più, o quantomeno, limitare significativamente le operazioni bancarie connesse con l'importazione o l'esportazione di materiali d'armamento". A detta del governo Berlusconi questo atteggiamento avrebbe "comportato per le industrie notevoli difficoltà operative" e proprio per questo "il Ministero dell'Economia e delle Finanze ha prospettato una possibile soluzione che sarà quanto prima esaminata a livello interministeriale". 

Ho dimostrato in diverse occasioni l’ingiustificato – e per diversi aspetti pretestuoso – allarmismo dei succitati rilievi. Ma quello che qui importa, è notare che l’annunciata “possibile soluzione” non poté essere subito attuata – di mezzo ci fu infatti il governo Prodi II –  ma solo rimandata al successivo governo Berlusconi. Il primo atto del governo Berlusconi IV fu proprio di sostituire l’allegato redatto dal Dipartimento del Tesoro denominato "Riepilogo in dettaglio suddiviso per Istituti di Credito" con un inedito “Riepilogo in dettaglio suddiviso per Aziende” che non riporta però l’elenco delle singole operazioni autorizzate alle banche rendendo praticamente impossibile il controllo – previsto dalla legge – sul loro operato. La modifica, mai giustificata al Parlamento, sortì l’effetto voluto: spianare la strada alle aziende, e soprattutto ai colossi a controllo statale Finmeccanica (oggi Leonardo) e Fincantieri, per continuare a fare affari con dittatori di ogni risma senza mettere a rischio i rapporti con le banche. La "rivoluzione liberale" di Berlusconi veniva così servita. E lo Stato, o meglio "il sistema Paese", diventava il commesso viaggiatore dell'industria militare nazionale.

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