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Lunedì, 29 Aprile 2024
L'intervista

"Gli influencer non sono tutti Chiara Ferragni, servono regole per tutelarli e tutelarci"

A Today.it parla Giulia Pastorella, deputata di Azione, che fa il punto sui vuoti normativi che riguardano la professione più discussa del momento

Dopo il "caso Balocco" e le altre vicende che hanno coinvolto Chiara Ferragni, la più potente influencer italiana, il governo - come spesso accade - ha risposto alla pressione dell'opinione pubblica mettendo in campo una legge, il Ddl beneficenza. Una norma che però tocca solo alcuni aspetti di una nuova professione che invece avrebbe bisogno di regole chiare, anche a tutela degli stessi lavoratori del settore. Secondo i dati dell’Osservatorio nazionale influencer marketing (Onim), l’influencer marketing produce un giro di affari di 348 milioni di euro, mentre l’intero comparto, quello della creator economy, muove oltre un miliardo di euro concentrato nei settori fashion & beauty, gaming e travel & lifestyle. Insomma, non spiccioli.

"In realtà - spiega Giulia Pastorella, deputata di Azione, a Today.it - il Ddl Beneficenza è un doppione, perché la regolamentazione su cosa si può fare e cosa non si può fare a livello di beneficenza legato a campagne di marketing esiste già; lo ha sottolineato recentemente anche Massimiliano Dona dell'Unione Nazionale Consumatori. Insomma, ancora una volta si è dovuto agire sulla scia di un caso mediatico e dell'emotività. Quello che vogliamo assicurare sono due cose: che gli influencer producano contenuti legittimi e leciti, e il fatto che la loro professione sia inquadrata meglio, non solo per assicurarsi che paghino le tasse".

Cosa manca a livello normativo per definire la professione degli influencer?

"Gli influencer oggi si sentono intrappolati in una zona grigia. Più che a una legge dedicata bisogna lavorare al riconoscimento della loro professione, concentrandosi su cosa c'è e cosa ancora non c'è a livello normativo. Alcuni strumenti già esistono, altri vanno completati perché mancano i decreti attuativi, e poi ci sono provvedimenti soft e linee guida che devono essere semplicemente applicati. Alcuni creator lamentano il fatto che ancora non sia riconosciuta la loro attività a livello giuslavoristico e quindi a livello fiscale; questo li espone continuamente al sospetto di svolgere attività illecite. Manca ad esempio un codice Ateco che definisca la loro professione: molti di loro sono costretti a registrarsi all'Agenzia delle Entrate con i codici utilizzati dai pubblicitari, ma non è la stessa cosa. Tra l'altro l'implementazione era prevista dal Ddl Concorrenza varato dal governo Draghi, ma non è ancora stato varato il decreto per rendere effettiva l'attivazione del nuovo codice".

Ci sarebbero poi da regolamentare i contenuti, ad esempio rendendo più chiaro cosa sia e cosa non sia pubblicità.

"Da quel punto di vista si può partire dalle linee guida di Agcom, che al momento ricalcano in toto quelle applicabili ai media tradizionali e in particolare la televisione, contenute nel Testo unico sui servizi di media audiovisivi. Anche qui, non c'è nulla di nuovo, bisogna semplicemente definire che quelle linee guida devono essere applicate a tutti gli influencer. Agcom al momento le applica a quelli con oltre un milione di followers e con un engagement superiore a 2 per cento, ma ci sono molti 'piccoli', magari con 100 mila o 200 mila fan, che hanno comunque un grande seguito perché il loro pubblico è molto settoriale. Tra l'altro questi numeri sono certificati da alcune agenzie private, ma non è detto che queste siano 'neutrali'. In alcuni Paesi ci si è spinti anche oltre: ad esempio in Francia c'è una norma che prevede che le immagini ritoccate siano segnalate, e che le multe inflitte agli imprenditori digitali vadano a finanziare un fondo per il risarcimento alle vittime di alcuni reati online". 

La politica si è accorta degli influencer dopo il "caso Ferragni"?

"In parte probabilmente sì, ma noi stiamo ponendo questi temi già da tempo, come anche l’Agcom che ha cominciato la sua consultazione per emettere le linee guida ben prima del caso Balocco. Il messaggio che vogliamo far passare è che, se è ovvio che non vada tutto bene, è al contempo sbagliato demonizzare questa professione, che non è appannaggio di truffatori o di gente che tira a campare, ma da professionisti a tutto tondo che, pertanto, vanno inquadrati come tali. Quando si parla di influencer si pensa subito a Chiara Ferragni, ma si tratta di una professione variegata: per esempio a un panel che di recente abbiamo organizzato per parlare del tema, erano presenti un divulgatore di storia e uno di filosofia. Molti di loro aiutano i ragazzi a crescere e informarsi".

Un argomento che si lega al rapporto tra lo Stato e i grandi colossi che gestiscono i social network, spesso poco inclini a mettere in discussione le loro policy. È un altro problema? 

"Su quello si sta lavorando molto a livello europeo. C'è ad esempio una norma molto efficace sul political advertising che regola le inserzioni che riguardano la politica e impone che siano pubbliche le cifre e i nomi di chi finanzia le campagne online. Il più conosciuto Digital Services Act invece impedisce alle grandi piattaforme la diffusione non solo di contenuti illeciti – com’è ovvio che sia – ma anche di contenuti che potrebbero generare un rischio sistemico per l'Europa; per esempio, a ridosso delle elezioni vengono controllate le fattispecie più pericolose o più sensibili, impedendo il market targettizzato su orientamento sessuale e altre caratterizzazioni sociodemografiche sensibili degli utenti. Uno dei problemi rimane però la natura ibrida delle piattaforme, che da un lato si presentano come delle bacheche in cui tutti possono pubblicare ciò che vogliono, ma dall’altro si comportano come degli editori; se quindi da una parte si sollevano dalle responsabilità su quello che viene pubblicato al loro interno, dall'altra hanno la possibilità di scremare i contenuti, applicando qualcosa di molto simile a delle linee editoriali; serve più chiarezza. A me non piacerebbe arrivare ad avere un filtro a priori, l’importante è che si intervenga tempestivamente quando avviene una segnalazione, come prevede la normativa europea: la piattaforma deve essere obbligata a rimuoverlo. Infine, serve un lavoro capillare per promuovere l'educazione digitale, se ne parla da anni ma siamo ancora molto indietro e nessuno ha fatto nulla".

La politica, va detto, arriva sempre molto tardi.

"Purtroppo sì, ma questo accade con qualsiasi innovazione, perché i tempi della democrazia sono più lenti di quelli del mercato. Mentre diverse commissioni del Parlamento fanno indagini conoscitive sull’impatto dell’IA nel mondo del lavoro o della cultura, le conseguenze sono già tra noi".

Anche ora, mentre parliamo di influencer, la rete si sta riempendo di baby influencer. Come tutelare i minori ed evitare che vengano sfruttati per fare soldi?

"È un tema che a noi preme molto. Come Azione abbiamo depositato una proposta di legge per far sì che i minori di 13 anni non abbiano accesso ai social introducendo un meccanismo di verifica dell'età simile a quello che sta sviluppando la Commissione Europea. Siamo stati tacciati di essere illiberali. Noi pensiamo semplicemente che sotto una certa età il minore non possa esprimere il consenso (come prevede la normativa europea) e quindi non debba poter accedere alle piattaforme, anche se il genitore se ne vuole prendere la responsabilità. La vera domanda è: chi tutelerà quei bambini quando una volta cresciuti chiederanno il diritto all'oblio per contenuti postati senza il loro consenso da persone adulte?"

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