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Lunedì, 29 Aprile 2024
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Gianmarco Saurino: "Voglio portare il pubblico dalla tv al teatro" | L'INTERVISTA

L'attore, tra i protagonisti più amati della fiction "Che Dio ci aiuti", in questi giorni è in scena a Roma con "Condannato a morte", monologo tratto da un romanzo di Victor Hugo

Pugliese, classe 1992, Gianmarco Saurino è uno dei volti più freschi - e anche più belli - della fiction italiana. Noto al grande pubblico grazie a serie Rai di successo come "Non dirlo al mio capo" e "Che Dio ci aiuti" - in onda proprio in queste settimane - l'attore è impegnatissimo anche a teatro, la sua grande passione. 

Al telefono è emozionato, l'adrenalina a poche ore dal debutto - a Roma, all'Off/Off Theatre - è palpabile, oltre che comprensibile visto il peso del ruolo che porta in scena, o meglio, dei ruoli. Sono 12 i personaggi a cui dà voce nel monologo "Condannato a morte", scritto e diretto da Davide Sacco.

"Che Dio ci aiuti" sta andando molto bene anche in questa quinta stagione. Qual è il segreto di un successo così longevo?
"E' una serie che parla a tutti e non ha paura di affrontare tematiche anche un po' pesanti a volte. Le nostre vite si alternano tra commedia e dramma, una serie deve anche far riflettere e parlare di temi che riguardano la vita di tutti i giorni. Le storie non sono troppo filmiche e la gente ci si ritrova. Credo sia questo il vero segreto di tanto successo".

Questa fiction nel corso degli anni ci ha abituato a grandi colpi di scena. Cosa dobbiamo aspettarci ancora?
"Quest'anno l'ho definita la serie della maturità. Tutti i personaggi si ritrovano a combattere con spettri del passato e quesiti irrisolti che li costringono a maturare. Non so cosa c'è da aspettarsi di diverso dal solito, se non la possibilità di lasciarsi stupire. Accettare i cambiamenti, come già ce ne sono stati. Penso ad esempio alla morte del personaggio di Lino Guanciale o anche a Diana Del Bufalo che non c'è più, ma una morte così come una partenza assicurano cambiamenti e i cambiamenti sono vita, anche per una fiction. Questo permette di tenere l'attenzione del pubblico sempre viva". 

Dal piccolo schermo al teatro. In questi giorni sei in scena a Roma con "Condannato a morte", monologo tratto da un romanzo di Victor Hugo. Una svolta inaspettata per il pubblico televisivo...
"Io ho iniziato con il teatro, anche se ho fatto il centro sperimentale, quindi ho una forte impronta cinematografica. Il principio è riuscire ad abituare il pubblico, portarlo dal divano al teatro per ascoltare una storia. Quando ho iniziato a fare tv ho pensato che se riuscivo a portare il pubblico televisivo in teatro avrei fatto cultura e dovrebbe essere il must per chi fa questo mestiere. Siamo operatori culturali prima che attori".

Una grande responsabilità questa...
"La cultura deve avere un ruolo importante nella società, nella politica, e per politica non intendo i colori della bandiere e dei partiti, ma una politica più umana. Quando ho iniziato ad affrontare questo monologo pensavo 'Ha senso mettere in scena uno spettacolo sulla condanna a morte quando in Italia non ci ha mai riguardato da vicino? Quanto parla al pubblico?'. Ha senso nel momento in cui si racconta una storia a qualcuno che la ascolta. Se ci si riesce si crea empatia, cosa fondamentale oggi. Tornando alla cultura, se la cultura può insegnare a mettersi nei panni degli altri serve tantissimo. Cosa c'è di più importante oggi? Se riesco a mettermi nei panni di un condannato a morte posso anche mettermi nei panni di chi è in mezzo al mare e sogna una vita migliore. L'empatia è tutto".

C'è qualcosa oggi che secondo te ci rende tutti condannati a morte?
"Ce ne sono duecento secondo me. Siamo tutti condannati a morte, ognuno con la propria storia, con le proprie sconfitte. In questa epoca tutti noi viviamo una morte: lavorativa, culturale, ontologica, questa forse più delle altre. 

Quello che porti in scena è un monologo intenso e impegnativo. Di getto viene da pensare molto più difficile rispetto a una fiction televisiva. E' davvero così?
"Ci sono dinamiche sicuramente diverse. 'Condannato a morte' è uno spettacolo di 55 minuti, con personaggi diversi che si alternano, con dialetti diversi. Ovvio che rispetto a storie di vita di tutti i giorni, come quelle che si vedono nella fiction, suona più complesso, ma anche le serie tv hanno aspetti difficili. Mantenere lo stesso livello di tensione per sette mesi è complicato. E' tutto molto veloce, non c'è possibilità di fermarsi e devi essere performante sempre perché quella cosa la cedranno 6 milioni di persone. Molti a volte si perdono perché è pesante, anche dal punto di vista fisico. Sono due mezzi molto diversi che io cerco di fare con lo stesso grande impegno".

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