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Martedì, 30 Aprile 2024

Il commento

Giulio Zoppello

Giornalista

Perché Favino ha ragione a lamentarsi, ma ha anche torto 

Pierfrancesco Favino ha lanciato l’ennesima bomba, riprendendo “l’ordigno” impugnato a Cannes e rivendicando la necessità di un maggior coinvolgimento degli attori italiani nelle produzioni internazionali, onde evitare il perdurare di stereotipi e inesattezze. Ha ragione? Ha torto? Forse si, forse no, forse entrambe in realtà perché la faccenda riguarda non solo gli americani, ma noi stessi, il nostro cinema vecchio, datato, immobile, distante dal resto del mondo. Forse è l’ora di un’autocritica necessaria e salutare, di guardare dall’alto ciò che non diciamo di noi stessi. 

Un’Italia che esiste solo nella testa degli americani

L’aveva già fatto a Cannes, ora si è ripetuto qui a Venezia, dove era in Comandante e in Adagio, due film molto diversi, entrambi attraversati dal suo talento. Pierfrancesco Favino ha parlato chiaro di ciò che è l’Italia agli occhi del mondo per come Hollywood la narra e la descrive. Non ha usato mezze parole nel far notare una deriva ripetitiva, stantia e scontata nel modo in cui l’Italia è narrata sul grande e piccolo schermo, utilizzando tra l’altro attori americani, che tendono a ripetere sempre lo stesso schema, quello creato da decenni di mafia movies, commedie anni ’50 e via dicendo. Favino, il volto dominante del nostro cinema, ha indicato anche in questa rappresentazione falsata uno dei motivi della crisi del nostro cinema. 

“I ruoli italiani devono essere interpretati da attori italiani. Perché nel momento in cui Alessandro Borghi, Sabrina Impacciatore, un Luca Marinelli sono in una produzione internazionale” ha tuonato il fu Libanese “improvvisamente il pubblico italiano si sente rappresentato in quello che considera essere il cinema di livello A o B". Non si è fermato e ha chiarito come “nessun Paese al mondo, in questo momento, sta consentendo a Pierfrancesco Favino di fare, giustamente, Kennedy o Tom Ford. E noi invece stiamo tranquillamente dicendo che tutta la famiglia Gucci è italo americana, senza problemi. Se va bene, va bene per tutti". Sì perché è innegabile che in Gucci, come in Ferrari, in Equalizer 3Book ClubLetters From Juliet, nei vari 007 o The Tourist, siamo sempre delle macchiette, siamo clowneschi, gesticolanti buffoni, donne velate di nero, con lo slang che Scorsese, Coppola ed altri hanno reso famoso per gli italo-americani del cinema. Quelli non siamo noi, ma davvero andrà sempre così? La risposta è un po’ più complessa.

La necessità di un nuovo corso produttivo italiano

A Favino hanno dato ragione Pupi Avati, la Fenech, Margarita Rosa De Francisco, Alessandro Siani ma altri invece vedono la faccenda in modo molto diverso. Su tutti Andrea Iervolino, produttore del biopic di Michael Mann su Enzo Ferrari che Favino ha chiamato in causa senza mezzi termini. “Ferrari in altre epoche lo avrebbe fatto Gassman, oggi invece lo fa Driver e nessuno dice nulla. Mi sembra un atteggiamento di disprezzo nei confronti del sistema italiano” era sbottato l’attore. “Negli ultimi trent'anni, il cinema italiano non ha creato uno star system riconoscibile nel mondo, nonostante siano presenti sul panorama italiano moltissimi attori di eccellente professionalità” ha spiegato Iervolino, auspicando a cast di nazionalità mista come a suo tempo fecero registi di culto come Bertolucci, Leone, Corbucci o De Sica, permettendo a tanti attori italiani di emergere. Iervolino ha perfettamente ragione in questo.

Il cinema italiano da trent’anni è diventato autarchico, forse anche a causa della svolta “leggera” berlusconiana non ha più saputo far altro che creare commedie per famiglie, cinepanettoni, inseguire il solito dramma borghese ad uso e consumo del nostro pubblico ma di scarso richiamo altrove. La nostra bandiera è stata tenuta alta da isolati maestri come Sorrentino, Garrone, Moretti, Bellocchio, ma tolti loro il nostro cinema all’estero non arriva e la serialità televisiva che piace è sempre quella su mafia e affini. Francia, Germania, Danimarca, Spagna e altri paesi invece innovano, sperimentano, si adattano al cambiamento, mandano avanti nuove leve e nuovi volti, propongono film per un pubblico non solo nazionale. Ecco perché Bardem viene chiamato in Dune e Favino no, ecco perché Marinelli viene chiamato in ruoli minori in film come The Old Guard e Schoenaerts invece era addirittura trai papabili per essere il nuovo 007. 

Tocca all’Italia narrare agli altri degli italiani

Favino ha perfettamente ragione però quando dice che in Gucci o Ferrari paiamo la brutta copia degli italoamericani visti nei Sopranos o Casinò, quando fa notare come gli attori americani abbiano questi come costante punto di riferimento, quando va bene si torna ai tempi di “Marcello come here!” e alla visione di Roma o Venezia o Napoli come era negli anni ’50. Ma è colpa nostra, e il fatto che lui non lo noti, non sottolinei che un’industria cinematografica italiana non esiste, come non esiste una nostra voce univoca, una volontà di capire il mondo cosa vuole e non solo il nostro pubblico, è un errore non da nulla. Arriva da un attore che tra l’altro ha collaborato con Ron Howard, in film dove non è che l’Italia fosse qualcosa di diverso dalla solita meta per vacanze spensierate o cartoline.

Il pubblico americano e non solo ci vede in questo modo da sempre, funziona, piace, per l’industria cinematografica conta il loro feedback, così come era per orientali negli anni ’50 o ’60. Cosa cambiò le cose? Le cambiò Bruce Lee, i film sulle arti marziali che lasciarono la Cina per unirsi all’action americano, cambiando la settima arte, aprendo la strada ad una nuova rappresentazione. Se ciò non avviene, per quanto irritante vedere Lady Gaga scimmiottare le tante “fimmene” meridionali del nostro cinema passato, la situazione non cambierà, non riusciremo a far comprendere che tra un siciliano, un friulano, un veneto e un romano c’è un mondo di differenza. Ad onor del vero in Ferrari Mann ha cercato di creare una rappresentazione diversa dal solito, forse qualcosa anche con i social sta cambiando nella percezione. Ma non possiamo pensare che siano gli altri a fare il nostro lavoro, a donare al mondo la nostra verità, questo dobbiamo essere noi a farlo. I veri colpevoli sono i vertici del nostro cinema, sia privati che pubblici, che non rischiano, non innovano, non osano, ci rendono una Repubblica delle Banane anche artisticamente. 

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