Gli archeologi hanno scoperto il sapore del vino dell’Antica Roma
Da un confronto tra antichi recipienti dagli scavi di Pompei e in Abruzzo e le anfore georgiane, l’Università belga di Gand ha intuito il sapore del vino antico. I risultati degli studi su gusto, colore e gradazione
Vi siete mai chiesti come suonasse la musica millenni or sono? Noi, ancora più spesso, ci domandiamo che gusto avesse il cibo di un tempo, e che profumo invece il vino. Mentre nel primo caso gli scavi restituiscono ogni tanto qualche residuo ben conservato — oppure un affresco — in fatto di bevande più volatili le cose si complicano. Gli studiosi dell’Università di Gand hanno però condiviso il frutto di ricerche archeologiche sul tema del vino nell’Antica Roma. Che, con buona probabilità, sarebbe più “moderno” di quanto non ci si aspetti. I risultati dello studio.
Le affinità tra il vino nell’Antica Roma e quello georgiano
La rivista inglese Antiquity ha da poco pubblicato lo studio coordinato dal Professor Dimitri Van Limbergen, docente del Dipartimento di Archeologia dell’università belga. Studi comparativi su contenitori di argilla (i grandi dolia) rinvenuti nei siti di Pompei e di Boscoreale, in Campania, nonché a Le Muracche, in Abruzzo, hanno dimostrato affinità sorprendenti con pratiche di vinificazione ancora in uso in Georgia. Ricordate la “nuova ondata” dei cosiddetti orange wine e dei vini affinati in anfora? Arriva proprio da lì, con la tradizione georgiana che prevede di macerare il vino in recipienti di terracotta interrati.
Che permettono di mantenere la temperatura costante e sviluppare caratteristiche organolettiche peculiari. “Nessuno studio aveva ancora esaminato attentamente il ruolo di questi vasi di terracotta nella vinificazione romana e il loro impatto sull'aspetto, l'odore e il gusto dei vini antichi”, ha affermato Van Limbergen, osservando le prove dell’esistenza della metodologia anche a Roma, ben 2mila anni fa. Frammenti di recipienti in questo materiale, chiamati qvevri, sopravvivono in cantine in Georgia e in tutto il Caucaso, “e i Romani usavano lo stesso tipo di argilla, il che lascia pensare che avessero imparato il trucco dai viticoltori di lì”.
Le anfore interrate: come si faceva il vino nell’Antica Roma
Gli studi hanno registrato come i Romani seppellissero i loro dolia nel terreno, lasciandoli inizialmente aperti in fase di fermentazione. Recipienti porosi, che permettevano al contenuto di reagire con l’ossigeno; piuttosto diversi, quindi, da quelli metallici generalmente impiegati oggi. In Georgia invece la tradizione prosegue, con una notevole affinità tra metodi antichi e moderni. E con una lavorazione che permette a diversi lieviti di produrre un composto chimico chiamato “sotolone”, responsabile delle note che si possono trovare nei vini attuali. Importante, in entrambi i casi, il ruolo dell’argilla, naturalmente ricca di minerali, e che ci suggerisce quale fosse il sapore del vino anche nell’antichità.
Di cosa sapeva il vino dei Romani?
“Il contatto con l'aria non gestito trasforma il vino in aceto, ma l'ossidazione controllata può dare come risultato ottimi vini, poiché concentra il colore e crea piacevoli sapori erbacei, di nocciola e di frutta secca”, ha precisato il docente. Secca, complessa e bevibile: così era la bevanda nell’Antica Roma, e lo si deduce dallo studio del metodo di produzione. Probabilmente poi di colore ambrato, con una gradazione alcolica di circa l’11%, nonché note di pane tostato, noci e spezie che potrebbero appagare anche un bevitore moderno. Sarà perché — anche nel vino — “tutto torna”, sarà perché le battaglie dei sostenitori del vino naturale guardano sempre più al passato, ma è probabile che oggi, davanti a un calice di vino “antico”, nessuno storcerebbe il naso.
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