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Venerdì, 26 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

La profezia planetaria del rendering

Si prende l'immaginario di qualcosa, come un profilo Facebook ad esempio, e sommandolo a tanti altri, elaborandolo, rafforzando di qui ritoccando di là, ecco costruita una formidabile macchina di trasfigurazione della realtà. Non sto parlando del caso Cambridge Analytics di questi giorni agli onori della cronaca nera, ma di un bel pezzo di recente storia dell'architettura, o meglio pratica professionale del modello detto archistar, di fatto allargato anche a una massa consistente di progettisti meno mediaticamente esposti. È un problema? Si, perché va infinitamente oltre l'ambito a cui dovrebbe appartenere, e permea di sé e della propria particolare logica mondi con cui quella logica non devono avere nulla a che fare, almeno non in quel modo così avvolgente. Me ne sono reso conto abbastanza lentamente sull'arco di molti mesi, forse anni, notando una costante fissa, fastidiosa, ma altrettanto implacabile nei post «copertinati» che spesso inserisco in bacheca, quando invece di una mia innocua foto di paesaggio urbano, o magari del sottoscritto in bici o su una panchina al parco, metto un edificio noto, una pagina illustrata da un libro, e peggio che mai uno di quei rendering pescati in rete. L'idea sarebbe, come comprensibile, di attirare l'amico-lettore sul testo e i concetti del post, nonché magari sull'articolo più lungo condiviso, ma l'effetto è invece tutt'altro.

Si potrebbe qui commentare che certo, è vero, il frettoloso (a dir poco) lettore del social network spesso non legge nulla, guarda l'immagine, coglie forse una parola o due sparse, e subito furiosamente gli scatta l'istinto del commento a quel che gli frulla in testa, che c'entri o meno con le intenzioni dichiarate del post. Ma quello che accade coi progetti di architettura è molto più profondo, e dilagante, come mi è successo di notare in occasione della Giornata Internazionale delle Foreste, a cui un grande quotidiano doverosamente dedicava un intero paginone con dati e grafici, ma con qualche dettaglio a dir poco sconcertante: l'immagine di copertina era una veduta urbana di oggi coi grattacieli, e giusto qualche ciuffo di verde da giardino pubblico; l'immancabile intervista all'esperto non coinvolgeva l'ecologia, la forestazione, la climatologia, ma la progettazione architettonica, gli edifici, o per usare il linguaggio delle promozioni immobiliari un «sogno immerso nel verde». La tesi che il lettore medio si trovava a dedurre, dal quel paginone dedicato alla Giornata Internazionale delle Foreste, suonava più o meno: il mondo ha un grosso problema di boschi e alberi, ma per fortuna ci sono degli architetti che parlano d'altro, immergendoci nel loro mondo di «città ecologiche» soprattutto a parole. Ma la contraddizione non è ancora finita.

Perché si parlava all'inizio di Facebook, specchio della società e delle sue contraddizioni, e ancora una volta da lì arriva una possibile conferma. Il mio post voleva essere cauto: non la solita «condivisione critica» dell'articolo con immagini di architetture, con qualche parola di dissenso a titolo di introduzione, ma una breve sintesi di quel pezzo mescolata alla personale opinione. Molti «mi piace», condivisioni, ma è la qualità dei commenti che mi ha lasciato a dir poco perplesso, inducendomi dopo un po' a cancellarlo, quel post: nonostante tutto, si abboccava ideologicamente alla trappola mediatica, parlando bene o male di architettura, di progetti, di «sostenibilità» applicata a quei disegni e così via. Le foreste, il pianeta, il clima, insomma la vita, erano totalmente sparite dalla discussione, diventata una specie di televoto favorevole o contrario ai disegnini di case e balconi e fioriere. Non si potrebbe provare a uscire, da questa intontita fascinazione infantile?

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