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Venerdì, 26 Aprile 2024
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"Il Cie è un buco nero: qui finiscono anche italiani"

Fatì si è cucito la bocca nel Cie di Bari perché non voleva tornare in Tunisia ma a Roma, a casa sua. JeanClaude è finito lì invece nonostante il suo forte accento bresciano. Loro sono italiani, ma non per la burocrazia e finiscono reclusi

Fati ha poco più di trent'anni e da 24 vive in Italia. Ha origini tunisine ma ha studiato e vissuto da noi da sempre. All'improvviso è finito nel Cie di Ponte Galeria a Roma, con una colpa: la clandestinità. Non aveva commesso nessun reato, non era appena arrivato da un Paese da cui era scappato: era a casa sua.

Nei Centri d'identificazione ed esplulsione prima dici chi sei e poi ti diranno dove andrai. A Fatì glielo hanno detto quasi subito: torni in Tunisia. Ma quello non era più il suo Paese, quello in cui si hanno casa e affetti. Così decide di protestare e nei giorni di fuoco a Ponte Galeria a Roma si cuce la bocca insieme ad altri reclusi nella sua condizione. Intanto cerca un avvocato, perché lui a casa, in Italia, ci vuole rimanere. Ne trova uno nella Capitale.

Ma dopo quelle proteste, le cui foto hanno fatto il giro del mondo, chi si era ribellato alle condizioni del Cie è stato "trasferito": perché in Italia di Cie ce ne sono tredici. Così Fatì è finito a Bari, una città che per lui era come Tunisi: non conosce nessuno, non ha una casa e qui non ha neppure il suo avvocato, che è a Roma. Così decide di continuare a protestare: inizia lo sciopero della fame e dopo una settimana si cuce la bocca e aggiunge anche quello della sete. La notizia però stavolta fa il giro solo dei quotidiani locali, non suscita più troppo stupore: i giornali di bocche cucite con ago e filo ne hanno già viste. Di lui si accorgono però i giovani precari del collettivo 'Rivoltiamo la precarietà'. Occupandosi spesso di migrazione, non è la prima volta che si trovano davanti a una situazione del genere. Ci dice uno degli attivisti, Federico:

Fatì è arrivato qui piccolissimo e giustamente non vuole finire in Tunisia, un Paese che non conosce. Ma non è la prima volta che succede qualcosa del genere: qualche tempo fa abbiamo conosciuto Jean-Claude, che era arrivato a Bari da Brescia e aveva un forte accento di quelle zone. Lui è nato in Congo ma è in Italia da quando aveva due anni: ha litigato con il padre, è uscito dalla sua patria podestà e in automatico è diventato clandestino. Che sia perito industriale, che abbia studiato in Italia non interessa ai burocrati. Non interessano a nessuno le storie di queste persone.

Il collettivo di Federico queste storie le ha ascoltate: JeanClaude adesso è fuori dal Cie, non tornerà in Congo e vive a Bari. Ma tutto questo accade e sempre più spesso. Federico di Rivoltiamo la precarietà sembra sapere bene quale è il problema:
 

Con la legge Bossi Fini, che lega permesso di soggiorno a contratto di lavoro, il limite tra clandestino e non clandestino è labilissimo. Un giorno lo sei e il giorno dopo no. A Bari arrivano spesso migranti da altri Cie che vivono questa situazione ma parlare e comunicare con loro è più difficile che parlare con un detenuto e queste persone non hanno commesso reati. E' complicato per loro che sono continuamente sballottati da una parte all'altra, in contesti che non conoscono. E' complicato per noi aiutarli perché la comunicazione con loro è una chimera. Neppure il sindaco può entrare nel Cie.


Tutto questo si ripercuote anche sulle realtà che vogliono aiutare queste persone, rinchiuse nei centri perché il Cie "è un buco nero":

Noi abbiamo seguito la storia di Fatì, ne siamo venuti a conoscenza. Ma adesso non sappiamo dove sia: se è ancora nel Cie, se è in ospedale, se è stato di nuovo trasferito. Potrebbe sparire e noi non ne verremmo a conoscenza. Il Cie è un vero e proprio buco nero.

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