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Sabato, 27 Aprile 2024
Mondo Serbia

Se la polveriera nei Balcani rischia di esplodere (di nuovo)

Usa e Europa vogliono evitare un altro conflitto nell'area e accusano i leader di Serbia e Kosovo per aver infuocato gli animi. Entrambi si sono rifiutati di recarsi a Bruxelles per discutere di pace

Un rifiuto che puzza di bruciato e fa temere nuove micce nell'area meridionale dei Balcani. Il "no" proviene da Aleksandar Vučić, presidente della Serbia, e da Albin Kurti, primo ministro del Kosovo. Entrambi erano stati invitati questa settimana a recarsi a Bruxelles per sedersi ad un tavolo per una "riunione di crisi", altrimenti avrebbero affrontato conseguenze "dannose". Finora nessuno dei due leader ha accettato di andare per iniziare una nuova serie di trattative volte, in sostanza, a placare gli animi nel nord del Kosovo, dopo i recenti scontri. Usa ed Unione europea dopo aver tentato la carta della conciliazione, sono ormai orientate a quella del rimprovero, dopo che i due leader negli ultimi mesi hanno vanificato tutti gli sforzi della comunità internazionale di allentare le tensioni nell'area. Già impegnati in uno sforzo bellico e diplomatico notevole sul fronte dell'Ucraina, gli Stati occidentali intendono evitare un nuovo focolaio nei Balcani. Le figure di riferimento nei due Paesi sono però molto più ingombranti del previsto, nonché sorde rispetto alle reali esigenze delle rispettive popolazioni.

Partner inaffidabili

Al centro delle preoccupazioni della diplomazia internazionale c'è il primo ministro del Kosovo Albin Kurti, che negli Stati Uniti risulta ormai inviso sia ai democratici che ai repubblicani. Reputato un politico testardo e, in alcuni casi, sconsiderato, Kurti viene accusato da più parti di aver minato lo sforzo congiunto Usa-Europa per instaurare una pace duratura tra Kosovo e Serbia. Persino Washington, sotto la cui egida è nato il piccolo Stato a maggioranza albanese, ha addossato a Kurti la responsabilità del recente scoppio delle violenze tra la comunità serba del Nord-Kosovo e le forze armate della missione della Nato, intervenute per evitare scontri diretti con la polizia kosovara. "Abbiamo alcuni problemi fondamentali sul fatto che possiamo contare su di lui come partner", ha detto Christopher Hill, l'ambasciatore degli Stati Uniti in Serbia, rilasciando delle dichiarazioni a Voice of America.

È seguito un duro tweet del segretario di Stato Antony Blinken: "Condanniamo fermamente le azioni del governo del Kosovo che stanno intensificando le tensioni nel nord e aumentando l'instabilità". A inizio giugno Blinken ha chiesto un'immediata de-escalation delle tensioni nell'area al termine del vertice dei ministri degli esteri della Nato. Se è vero che Belgrado continua a rifiutare di riconoscere l'indipendenza di Pristina, reputandola ancora una sua provincia "ribelle", numerose voci, sia diplomatiche che sul campo, sostengono che Kurti abbia sabotato qualunque sforzo per realizzare l'autonomia amministrativa dei quattro comuni del Nord, ritenuta un punto cruciale per un ammorbidimento da parte della Serbia. Anche dopo i violenti scontri, redarguiti dalla comunità internazionale, le scaramucce sono proseguite: la Serbia ha arrestato tre guardie di frontiera kosovare, accusandole di aver valicato il confine, mentre il Kosovo ha chiuso il valico principale impedendo ai camion serbi di entrare nel suo territorio. A rimetterci sono le popolazioni.

Dissensi

Dichiarazioni e interventi di stampo nazionalistico da ambo le parti provano a celare ben altre crisi. A Belgrado il dissenso nei confronti di Vučić è in aumento. Lo dimostrano le piazze colme che da settimane si riempiono chiedendo le sue dimissioni dopo due stragi avvenute a colpi di arma da fuoco nel Paese. Episodi distinti, ma simili nell'esecuzione, che hanno rimesso in discussione la capacità dei serbi di chiudere con le guerre balcaniche (e le sue armi) per aprire un nuovo capitolo di democrazia. Che in tanti desiderano aprire. In vista delle prossime elezioni, quella di spostare l'attenzione oltre confine potrebbe essere l'ultima mossa del primo ministro per recuperare voti.

In Kosovo la minoranza serba del Nord soffre in un limbo in cui viene rimpallata tra Belgrado e Pristina. Ciascuna capitale rivendica quel territorio, nessuna si assume le dovute responsabilità nei confronti dei suoi abitanti, che continuano a non capire quale sia l'autorità amministrativa sui cui possano contare davvero. Nel resto del Paese l'indipendenza regna sovrana solo sulla carta. La scorsa settimana l'Ue ha dichiarato di sospendere le visite ad alto livello con il Kosovo, ma soprattutto la sua "cooperazione finanziaria". Una minaccia che pesa sulla fragile economia di Pristina.

Appello a Strasburgo

A Bruxelles non hanno cambiato idea neppure dopo la recente visita della presidente del Kosovo Vjosa Osmani al Parlamento europeo, la prima carica a parlare a Strasburgo dall'indipendenza nel 2008. "Il Kosovo è l'Europa, essere kosovaro è essere europeo", ha affermato Osmani, chiedendo al Parlamento di "rimanere fermo al nostro fianco". Nonostante le garanzie offerte dal presidente rispetto ai progressi compiuti dal Paese in materia di stato di diritto, crescita economica e rafforzamento della democrazia, lo sforzo per l'adesione all'Unione europea sembra ancora insufficiente, tenuto anche conto che cinque Stati membri non riconoscono l'indipendenza del Kosovo. Fino a quando il giovane Paese balcanico stenterà sul piano economico e delle riforme, mancherà quel tassello indispensabile per poter puntare ad una vera autonomia nella regione. Solo allora (forse) la sua popolazione smetterà di essere strattonata da politici che fanno a gara a chi alza di più la voce.

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