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Domenica, 28 Aprile 2024

Christian Cinti

Giornalista Ternitoday

Il sangue che scorre anche sui social

Secondo la stampa inglese, il ministero degli affari esteri di Israele avrebbe investito oltre 7 milioni di dollari in campagne su piattaforme come X o YouTube. Intanto Meta chiude le pagine Instagram che rilanciano le immagini degli orrori a Gaza

Il 12 ottobre scorso, sulla pagina YouTube del ministero degli affari esteri di Israele è comparso un video piuttosto particolare. Disegni e colori sembravano infatti non avere nulla a che fare con quel profilo istituzionale. E la conferma del fatto che si trattava di qualcosa di assolutamente non convenzionale, è arrivata dopo qualche secondo e qualche fotogramma. I colori tenui e la ninna nanna che accompagnano la danza dell’unicorno protagonista del video, lasciano infatti presto spazio ad altro. Il messaggio che segue è questo: “Sappiamo che il tuo bambino non può leggere queste parole. Abbiamo un messaggio importante per voi genitori. Quaranta neonati sono stati ammazzati a Israele dai terroristi di Hamas (Isis). Così come tu faresti qualunque cosa per il tuo bambino, noi faremo qualunque cosa per proteggere i nostri. Ora abbraccialo e stai dalla nostra parte”.

La guerra corre anche sui social

Fino ad ora, il video ha raccolto – solo sul “tubo” – oltre un milione di visualizzazioni. E per la stampa inglese, che per prima ha notato la cosa, si tratterebbe di uno degli strumenti utilizzato da Israele per “promuovere” la sua narrazione della guerra che sta insanguinando la striscia di Gaza e il Medio Oriente. Una guerra che si combatte con gli strumenti tradizionali e terribili di ogni conflitto. Ma che ha nel suo arsenale anche armi non convenzionali: propaganda, influencer e tutto lo sterminato mondo che ruota attorno all’universo dei social media.

Se l’11 settembre degli Stati Uniti è stato il primo “dramma” moderno seguito in diretta dalle televisioni – e dagli spettatori – di tutto il mondo, il 7 ottobre di Israele (forse, non a caso ribattezzato come l’11 settembre di Gerusalemme) è il primo conflitto che può contare su una copertura media dettagliatissima. Almeno, fino ad oggi.

La campagna sui media

Secondo un approfondimento della tv Al Jazeera, Israele ha messo in campo una “massiccia campagna di promozione sui social media”, puntando in particolare su annunci che spuntano dai videogame on line e che dunque “puntano” ad un pubblico di ragazzi e ragazzini, anche mostrando contenuti tutt’altro che adeguati a quegli inconsapevoli spettatori, oltre che a piattaforme come X (l’ex Twitter) e – appunto – YouTube, dove il ministero per gli affari esteri avrebbe sponsorizzato almeno 75 campagne ads. Tra cui, quella del famigerato unicorno.

La giornalista inglese Sophia Smith Galer ha potuto documentare che dal 7 al 21 ottobre il dipartimento esteri del governo di Benjamin Nethanyau avrebbe investito oltre 7 milioni di dollari in campagne promozionali, rilanciando contenuti di tipo diversificato (dagli appelli per la liberazione degli ostaggi fino a video in cui si mostra la forza dell’esercito sul campo, passando per immagini di morti e lutti) che avrebbero generato quasi un miliardo di impression, con particolare efficacia su Francia, Germania, Regno Unito, Belgio e Stati Uniti. Sempre secondo l’inchiesta di Smith Galer, Google avrebbe invece rimosso circa 30 ads perché contenenti immagini violente e non adeguate ai propri standard.

A questo si accompagna quella che viene definita come una campagna di “deumanizzazione” del popolo palestinese che – è possibile ritrovare facilmente in rete i contenuti – in più occasioni e da alti profili istituzionali dello stesso governo israeliano, sono stati definiti come “animali”. Circola poi su Instagram più di un video da parte di influencer israeliane che mostra come le donne palestinesi si truccherebbero per imbastire le messe in scena di attacchi e morti: le oltre seimila vittime palestinesi (1.400 quelle israeliane) di cui, dice l’Unicef, oltre 2.300 bambini sarebbero una finzione e non una ecatombe.

Posizioni, queste social, che rischiano di amplificarsi rimbalzando sulla più o meno volontaria sponda che viene offerta dal presidente Usa, Joe Biden, che, nei giorni scorsi, in una conferenza stampa alla Casa Bianca ha detto di “non fidarsi” del bilancio delle vittime fornito da Hamas.

D’altra parte, conferme dirette sul campo sono piuttosto difficili, così come sembra essere sempre più complicato anche raccogliere materiale da sottoporre in una fase successiva a verifica. La striscia di Gaza è infatti preclusa alla stampa estera: le uniche fonti di informazione possono essere i giornalisti palestinesi sul campo. Ma i loro profili – soprattutto Instagram – vengono chiusi in sequenza, come accaduto alla pagina eye.on.palestin (attualmente è on line una pagina di backup) che, in questi giorni di guerra, ha rilanciato documenti, filmati, immagini e testimonianze di quanto sta accadendo.

A riprova però che il sangue scorre abbondante in quelle martoriate terre, le parole usate dal primo ministro Nethanyau durante il discorso alla Nazione: “Abbiamo ucciso migliaia di terroristi”, ha detto. Da quello che fino ad ora si è potuto vedere, molti di quei corpi straziati sembrano tutto, fuorché miliziani. Ed è difficile immaginare che ci sia qualcuno che, sotto una pioggia di bombe, si sia messo ad allestire un set cinematografico per girare immagini da promuovere sui social media.

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