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Martedì, 30 Aprile 2024

Stefano Pagliarini

Responsabile redazione

Perché la discussione sullo ius soli sportivo è pura retorica

Quando ho assistito al botta e risposta tra Giovanni Malagò, che invocava lo ius soli sportivo e il leader della Lega Matteo Salvini, intento a porvi subito un freno, ho pensato che in quella dialettica ci fosse qualcosa di anomalo. Sentire il Presidente del Coni rilanciare la battaglia di una cittadinanza subordinata ai risultati sportivi, mi ha fatto pensare. Mi ha ricordato Aleksej Stachanov, primo “Eroe del lavoro socialista” dell’Unione Sovietica, il cui riconoscimento apriva una serie di diritti in ambito sociale, pensionistico e fiscale che agli altri erano preclusi. Lui se l’era sudato in miniera quel privilegio. I nostri atleti se la suderebbero sui campi sportivi la cittadinanza.

Cioè ad un certo punto ho capito cos’è che rendeva quel dialogo grottesco: nessuno dei due stava parlando della questione. A parte il fatto che la discussione si è aperta con la vittoria di Marcell Jacobs nei 100 metri, che con lo ius soli sportivo non c’entra nulla dato che sua madre è italiana. Detto questo, il problema vero non sono i tanti ragazzi nati in Italia, bravi nello sport e che, non avendo la cittadinanza, non possono essere convocati in nazionale. Ma quelli nati in Italia e senza cittadinanza. Punto. Se si affrontasse quest’ultimo tema, si risolverebbe automaticamente anche quello legato allo sport.

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Va detto che in nessuno Stato membro esiste uno ius soli puro come quello degli Stati Uniti o del Canada, dove la cittadinanza è concessa a tutti i bambini nati nella nazione, indipendentemente dalla provenienza dei genitori, con la condizione che questi abbiano dovuto risiedere nel Paese per un certo periodo di tempo prima della nascita del bambino. In Francia, Lussemburgo, Olanda e Spagna c’è il “doppio ius soli”, cioè un figlio nato nel territorio dello Stato acquisisce la cittadinanza del Paese di nascita se anche uno dei due genitori è nato anche nel territorio di quello Stato, indipendentemente dal suo passaporto. Nei Paesi con lo ius sanguinis, cioè la cittadinanza che viene concessa ai figli di chi già la possiede, ci sono vari periodi di residenza a cui è subordinata la naturalizzazione: nell'Ue va dai soli tre anni della Polonia, ai dieci del nostro Paese, con la media comunitaria che è di quasi sette.

E allora lo ius soli sportivo altro non è che una selezione dei più valevoli figli di stranieri nati in Italia a cui concediamo la cittadinanza con una scorciatoia perché ci fa comodo. Perché serve ad essere più competitivi negli sport e a vincere più medaglie. E' detestabile l’idea che certi diritti, e anche doveri, possano essere di chi è bravo nello sport e non degli altri, che magari potrebbero eccellere in altri settori, forse anche più importanti per un Paese come l’Italia. Lo ius soli sportivo rischia di essere una discriminazione nella discriminazione. Capisco le destre che vogliono una società con meno stranieri e legano la cittadinanza ad una serie di prerogative. Capisco le sinistre, che immaginano una società multietnica e vorrebbero integrare la cittadinanza a condizioni meno restrittive. Ma lo ius soli sportivo proprio non lo capisco.

La cosa davvero stucchevole quindi non è il fatto che in Italia non viga lo ius soli sportivo, ma che non ci sia proprio lo ius soli. Se poi penso che viviamo in un Paese incapace di finanziare come si dovrebbe lo sport, al punto da dover sostenere i talenti con gli stipendi delle forze dell’ordine, la discussione sullo ius soli sportivo diventa la retorica dietro la quale nascondere i veri problemi dello sport in Italia.

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