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Sabato, 27 Aprile 2024
Diritti dimenticati

"Mia figlia adesso si chiama Riccardo, ma lo Stato ignora i ragazzi come lui"

Ogni anno oltre 20mila persone chiedono aiuto alle associazioni che difendono i diritti civili che denunciano: "Nonostante le promesse pesa non avere una legge contro l'omotransfobia"

"Sono la mamma di un ragazzo di 23 anni appena compiuti e di una ragazza tre anni più piccola. Alla nascita però erano entrambe delle bimbe". Si racconta così Laura, 55enne romana, quando la raggiungiamo al telefono. Corre tra un appuntamento e l'altro ma ci parla della storia sua e del figlio maggiore, Riccardo, che non si riconosceva nel genere di nascita e ha vissuto per 14 mesi in una casa famiglia gestita dal Gay Center a Roma per le vittime di discriminazione. Una storia familiare ma anche di "ignoranza pubblica": "Oggi le istituzioni fingono di non vedere le persone come mio figlio - ci dice - e la società non le accoglie. L'ignoranza porta emarginazione e violenza. Questo mi fa paura". 

"Il 9% degli italiani si dichiara Lgbt+" 

Le persone transgender non si riconosco nel genere assegnato alla nascita. Alcune iniziano un percorso che può prevedere vari step: supporto psicologico, rettifica dei documenti anagrafici, terapie ormonali, intervento chirurgico. In base agli unici dati disponibili, tratti dalle persone che si rivolgono ai centri per l'adeguamento di genere, si stima che interessi lo 0,5-1% della popolazione generale, quindi circa 500.000 persone. A loro vanno aggiunte tutte quelle che non iniziano un percorso. I numeri sono quindi molto più alti. Lo capiamo anche da un sondaggio Ipsos del 2023: secondo la ricerca in Italia il 9% della popolazione si dichiara lgbt+. In particolare, il 2% si definisce omosessuale, il 3% bisessuale, l’1% pansessuali/omnisessuale e l’1% asessuato. C’è poi un 4% che si definisce transgender/genderfluid/non-binario.

Ipsos 2023

La storia di Laura e di suo figlio

Laura, che era stata memorizzata sul cellulare dal figlio come "führer", adesso al suo lavoro affianca l'impegno da attivista del Gay Center e operatrice della Gay Help Line 800 713 713. "Ci ridiamo sù - dice - ma ne sono successe di cose. Ho fatto un corso di formazione e sono una volontaria: rispondo alle chiamate di chi chiede aiuto. Ci sono ragazzi disorientati, altri vittime di violenza. Tra loro anche tanti genitori che non sanno cosa fare, esattamente come non lo sapevo io. Io ho avuto aiuto, adesso provo a ricambiare. Faccio anche incontri nelle scuole per sensibilizzare su un tema di cui si parla poco".

Riavvolgiamo il nastro. La famiglia di Laura era "tradizionale": lei, il marito e le due bimbe. La coppia si sfalda e il divorzio è difficile, tanto che l'ormai ex marito interrompe i rapporti con le piccole. Quando la figlia maggiore diventa adolescente iniziano scontri e incomprensioni, il clima a casa è pesante. "I segnali di disagio c'erano - racconta - ma li ritenevo un mezzo per attirare l'attenzione del padre. Oggi posso dire che c'era molto altro. C'era il non riconoscersi nel suo corpo, ma non lo capivo. Non avevo gli strumenti per farlo".

Laura decide di chiedere aiuto e con la figlia maggiore si affida al Servizio per l'adeguamento tra identità fisica e identità psichica (Saifip) dell'ospedale San Camillo. La ragazza nel frattempo frequenta il gruppo giovani del gay center. C'è un litigio tra madre e figlia e la ragazza, da poco maggiorenne, esce di casa e non torna. Trova riparo della casa famiglia per giovani refuge lgbt+. Ci resterà 14 mesi. "Ero spaventata, non era in grado di badare a sè. Quando ho saputo dove si trovava mi sono tranquillizzata. Non potevo fare altro che rispettare la sua scelta. Almeno non era per strada, aveva un tetto e persone preparate intorno che potevano aiutarla. Però non potevo vederla o sentirla. Cosi per più di un anno. Un periodo lunghissimo. Io portavo il cambio abiti in associazione perché non potevo conoscere l'indirizzo della casa protetta, facevo la spesa per lei e gli altri ospiti ma senza contatti diretti. Mentre mi documentavo, ero aiutata dall'associazione stessa. Dopo oltre un anno l'incontro. Da casa mia era uscita una ragazza, ho trovato un ragazzo. In quei mesi aveva iniziato la terapia ormonale e l'ho aputo poco prima dell'appuntamento: aveva la barba, il vocione maschile. Non posso dire sia stato facile. Davanti avevo Riccardo: mio figlio".

Il giorno dopo quell'incontro Riccardo è tornato a casa ed è iniziato il "nuovo capitolo" della loro vita. "Ho dovuto preparare la sorella, il mio compagno dell'epoca e mio padre ottantenne - racconta Laura - . Piano piano abbiamo ritrovato la quotidianità. Oggi Riccardo è un giovane che cerca il suo spazio nel mondo. Ha documenti col nuovo nome. Le difficoltà però ci sono. A iniziare da cose banali. Mio figlio non ha fatto l'intervento. In palestra quale spogliatoio deve usare? Quello delle donne no di certo, ma neppure quello degli uomini... La società pone dei limiti. Ci sono dei vincoli sociali per le persone come mio figlio. Non avere uno spazio è già esclusione. Se usciamo chi lo guarda strano c'è ancora. Quando tutto è iniziato avevo paura che venisse ghettizzato, ostacolato, che trovasse muri sul lavoro. A distanza di anni quelle paure restano". 

Il discorso bagni e spogliatoi vale anche per la quasi totalità delle nostre scuole. Non solo. Pochissimi sono gli istituti in Italia dove esistono le carriere alias (e mancano linee guida ministeriali). Un'altra barriera riguarda la prevenzione: in Italia le aziende sanitarie locali dovrebbero convocare agli screening le persone che hanno diritto ad effettuarli. Una persona transgender nata donna che non si sottopone a un percorso medico di affermazione di genere che porta alla chirurgia genitale, ma che opta per il cambio anagrafico, non sarà mai chiamata per il pap test, poiché per il sistema sanitario nazionale è maschio.

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"Io ero ignorante nel senso che non conoscevo la realtà lgbt+ - aggiunge Laura - Ho 55 anni, ho studiato dalle suore, ho ricevuto un'educazione tradizionale, ho trascorsi politici di un certo tipo. Nulla sapevo su orientamenti di genere, identità di genere, transizioni. Non faceva parte del mio bagaglio. Eppure c'ero dentro. Ho chiesto aiuto, il Gay Center mi ha dato le basi per capire il mondo di mio figlio. Io però ho avuto la possibilità di impegnarmi, documentarmi. Ogni giorno vedo ragazzi che sono allontati da casa, che non trovano lavoro. Per loro lo Stato cosa fa? Non basta la possibilità delle cure per la transizione in ospedale, lì si affronta solo un aspetto. Chi guida le famiglie? Chi insegna come orientarsi? Chi informa su diritti e tutele? Non si può demandare tutto al privato e trattare la questione solo come una malattia da risolvere. Le associazioni fanno un lavoro importante e aiutano concretamente ma non possono essere lasciate sole. Senza educazione e tutela dei diritti ci sono rifiuto, odio, violenza".

Cinquanta richieste di aiuto al giorno alla Gay Help Line

La parola "aiuto" ripetuta 50 volte, 50 voci da luoghi diversi in sole 24 ore. Tante sono le persone che in media ogni giorno chiedono supporto alla Gay Help Line e alla chat Speakly.org. È il contact center nazionale contro l’omofobia e la transfobia, è gratuito e anonimo. La prima chiamata il18 marzo 2006, poi si è aggiunta la chat. Dal 2006 oltre 350.000 persone lgbt+ hanno chiesto supporto.  "La chat ha un'utenza più giovane, anche 12enni. Per loro è più facile raccontarsi scrivendo e possono chattare senza essere visti - spiega a Today.it Alessandra Rossi, coordinatrice Gay Help Line 800713713 e Speakly.org -. È uno strumento che li tranquillizza, poi spesso nelle situazioni che richiedono un intervento si passa alla conversazione a voce. La linea telefonica è usata soprattutto dai più grandi, non solo dalle persone gay, lesbiche o trans ma anche dai loro familiari che chiedono supporto e orientamento. Riceviamo anche molte segnalazioni di discriminazioni".

Secondo i dati del Gay center oltre il 51% dei contatti arriva dai più giovani, che raccontano le loro difficoltà, in quanto lgbt+ in famiglia o a scuola. Almeno il 15% vive rifiuti violenti. Tra le persone prese in carico il 41,6% subisce violenze psicologiche o fisiche. Molti sono i ragazzi che perdono il sostegno familiare e lasciano anche la scuola. "Il coming out - continua Rossi - spesso porta a una escalation in poco tempo. La reazione comune nelle famiglie è quella della vergogna e del rifiuto. I genitori vogliono che il figlio cambi e torni 'normale' e scatta il ricatto morale: 'O cambi o vai via'. Alcuni obbligano i figli a percorsi di psicoterapia ma avendo come solo scopo quello di ricondurli all'eterosessualità che viene identificata con 'la cosa giusta'. Alcune volte - precisa - si agisce in contesi di emergenza perché la reazione al coming out è stata violenta. Ci sono due strade: una è la mediazione familiare, ma è la persona stessa che deve farci capire se c'è un margine in questo senso. Altre volte serve l'allontanamento ma questo è complesso soprattutto se c'è un minore di mezzo perché si attiva un iter che coinvolge anche il tribunale per i minori".

Nel 2016 è stata attivata la prima casa famiglia per giovani refuge lgbt+ vittime di violenza e discriminazione - quella che ha accolto Riccardo - e dal 2021 c'è anche "A casa di Ornella", per persone trans, transgender e non binary vittime di discriminaizone. "Le case rifugio - dice Alessandra Rossi - hanno come scopo quello di dare riparo, ma non solo. Gli ospiti posso concludere il percorso scolastico, riprenderlo nei casi di abbandono, o puntare all'orientamento e inserimento lavorativo. Spesso l'accesso al mondo del lavoro è ostacolato dal pregiudizio. Soprattutto per le donne trans, in particolare se straniere, c'è una barriera".  

Discriminazioni quotidiane e poche tutele

Secondo Alessandra Rossi l'oggi è segnato da una forte preoccupazione. "L'Italia - ricorda - non ha ancora una legge contro l'omolesbotransfobia. I temi lgbtq+ non sono prioritari per il Governo. Sempre più spesso notiamo che quella che è una condizione dell'essere umano viene inquadrata e trattata come una patologia. C'è una forte ideologizzazione del dibattito ed episodi come l'ispezione ordinata dal ministero della Salute sul reparto dell'ospedale fiorentino di Careggi che si occupa di minorenni che soffrono di disforia di genere è un sintomo allarmante".

La misura di quanto la propria sfera personale è vincolante per esempio sul lavoro è data da un'indagine Istat-Unar (dati del 2022). "Il 41,4% delle persone occupate o ex-occupate intervistate dichiara che essere omosessuale o bisessuale ha rappresentato uno svantaggio nel corso della propria vita lavorativa. Tale situazione viene segnalata in misura maggiore dalla componente maschile (42,3% contro 39,9% della componente femminile), dalle persone omosessuali (42,3% contro 37,4% dei bisessuali) e dalle fasce di età più giovani (42% contro 37,4% degli ultra 50enni)". Le discriminazioni sono avvertite soprattutto nel privato. "Il 61,2% riferisce, in relazione all'attuale/ultimo lavoro svolto, di aver evitato di parlare della vita privata per tenere nascosto il proprio orientamento sessuale".

Istat Unar

C'e poi un "mondo" parallelo, quello delle "micro aggressioni" legate all'orientamento sessuale: insulti sottili, allusioni, occhiate "storte", mezze parole che rendono le ore lavorative un tiro al bersaglio. Otto persone su dieci hanno sperimentato almeno una forma di micro aggressione in ambito lavorativo.

"La disinformazione - conclude Rossi - porta alla non comprensione dei fenomeni e alimenta la violenza. Per questo motivo chiediamo una legge specifica contro le discriminazioni, che l'educazione sessuale e all'affettività diventi materia scolastica. Sotto il profilo sanitario chiediamo che i protocolli per la presa carico delle persone trans negli ospedali siano implementati. Contro stigma e violenze servono informazione, tutele, diritti e supporto reale".

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