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Domenica, 28 Aprile 2024
Fact checking

Il lavoro c'è, ma è povero: i dati che smentiscono il governo

Da mesi il governo insiste sulla presenza di opportunità di lavoro e sulla presunta svogliatezza di molti italiani a volerle accettare. Una narrazione tornata d'attualità con l'abolizione del reddito di cittadinanza, ma che non prende in considerazione molte variabili fondamentali, a partire dai salari

Nei giorni del grande caos, per l'abolizione del reddito di cittadinanza, il mantra del Governo è sempre lo stesso. Come ripetono da mesi i suoi esponenti: in Italia il lavoro c'è, basta cercarlo. La narrazione è che le prospettive economiche sono di gran lunga migliorate negli ultimi tempi e tutti sono chiamati a rimettersi in gioco. L'assist involontario a questa "argomentazione" viene dalle ultime rilevazioni Istat proprio sull'occupazione. 

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Secondo i dati del nostro Istituto nazionale di statistica, il tasso di disoccupazione in Italia è in calo. Scende nel mese di giugno al 7,3% (meno 0,2 punti percentuali rispetto al mese precedente e di ben meno 1,4 rispetto punti rispetto a gennaio 2022). Cresce anche l'occupazione giovanile e quella femminile e diminuiscono gli inattivi. Tutto bene quindi? Per dare una prospettiva alle statistiche è forse opportuno scomporle e cominciare a capire di cosa parliamo quando parliamo di lavoro in Italia. 

Perché da più di 30 anni i salari in Italia sono un problema 

I salari italiani sono diminuiti in termini reali (parliamo quindi di potere d'acquisto al netto dell'inflazione) del 12% rispetto al 2008. A certificarlo è l'Ilo, l'Organizzazione internazionale del lavoro. Il mix che contraddistingue la nostra economia è quello di avere salari fermi da quasi 30 anni, un caso unico rispetto alle altre economie europee e una produttività del lavoro inferiore a quella di molti altri paesi sviluppati. La risultante è, spesso e volentieri, quella di imprese che creano profitti grazie all'abbassamento sistematico del costo del lavoro. Una piccola idea la si può avere guardando agli ultimi dati Inps disponibili sui lavoratori dipendenti. 

I dati del grafico si riferiscono all'ultima rilevazione Inps, relativa al 2021 e prendono in considerazione solo gli impiegati del settore privato. Il 16,5% dei lavoratori italiani aveva un reddito che non arrivava a 5mila euro l’anno, mentre quello del 40% degli occupati non era superiore ai 15mila. Una dinamica che alimenta il fenomeno delle famiglie (e dei minori) indigenti. Le famiglie in stato di povertà assoluta ammontavano al 7,5% del totale in Italia nel 2022, in aumento di quattro punti percentuali rispetto al 2004. Al Sud è povera una famiglia su 10. 

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E sulle basse paghe incidono anche le tipologie di contratto che sono proliferate in questi anni nello Stivale e che, se da un lato offrono flessibilità, dall'altro penalizzano pesantemente molte categorie di lavoratori, a partire dalle donne e dai giovani. 

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In Italia quasi 3 milioni di lavoratori sono precari, ovvero hanno un contratto a tempo determinato. Circa mezzo milione invece sono stagionali. E il numero di questa tipologia di occupati è aumentato costantemente negli anni. 

(Clicca qui se non visualizzi il grafico)

Scomponendo i dati del grafico che potete vedere sopra, scopriamo che la maggior parte dei lavoratori a tempo determinato sono giovani e donne. In particolare quasi la metà dei lavoratori sotto i 30 anni ha un contratto precario in Italia, un primato che non ha corrispettivi in Europa e che incide sulla volontà o meno di creare una famiglia ad esempio. Perché generalmente il lavoro precario è molto meno pagato di quello a tempo indeterminato. 

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La retribuzione lorda media di un dipendente a tempo determinato era di circa 9.634 euro all’anno nel 2021, quella di uno stagionale di 6425 euro, contro i 26.285 di media chi aveva un contratto a tempo indeterminato. Precarietà significa automaticamente quindi più povertà, ma non è la sola caratteristica che tende a tenere bassi i salari. L’altra si chiama tempo part-time involontario, ovvero forme di lavoro a tempo parziale non scelte autonomamente dai lavoratori, ma dalle aziende.

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I lavoratori part-time in Italia sono oltre 3 milioni e mezzo. Anche nel loro caso la differenza retributiva con gli impiegati a tempo indeterminato è evidente. E anche in questo caso siamo un'eccezione in Europa, come si evince dal grafico sotto. 

(Clicca qui se non visualizzi il grafico)

Se l'Italia è in linea per quanto riguarda il numero di lavoratori part-time con gli altri paesi europei, la stessa cosa non si può dire per quanto riguarda le persone che lo scelgono volontariamente. In Italia il 77% degli uomini e oltre la metà delle donne che ha un impiego a tempo parziale non lo ha scelto. Si è trovato ad accettarlo per pura necessità, in mancanza d'altro, come ci dimostrano i dati di Eurostat. Per le statistiche si tratta di "occupati". Nella realtà sono spesso lavoratori precari che fanno fatica spesso ad arrivare a fine mese. E alcuni di loro si sono probabilmente affidati al reddito di cittadinanza per integrare salari da fame. 

Il reddito di cittadinanza come strumento di integrazione

Il dato che viene ignorato da molti è che quasi il 20% dei percettori di reddito di cittadinanza (Il 18,8% per la precisione) aveva un'occupazione, almeno secondo i dati della scorsa estate forniti dall'Anpal (l'agenzia nazionale delle politiche del lavoro). Parliamo di 130mila persone. Metà di loro aveva un contratto a tempo indeterminato, ma percepivano un reddito troppo basso che veniva integrato dal sussidio. C'è poi il problema di chi è veramente occupabile e chi non lo è. E di come l'abolizione del reddito si ripercuoterà su un mercato del lavoro caratterizzato da salari molto bassi. 

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Nel giugno 2022 appena il 13% dei percettori del reddito aveva avuto un contratto (di qualsiasi tipo) nell’anno precedente e solo il 27% nei tre anni precedenti. La maggior parte, circa il 73% non aveva invece di fatto mai lavorato negli ultimi tre anni e si trovava in una situazione di esclusione strutturale dal mondo del lavoro. La stragrande maggioranza (più del 70%) possedeva solo un titolo di studio di secondaria inferiore.

Parliamo quindi di persone che, per il mercato del lavoro attuale, sono difficilmente occupabili e avrebbero bisogno di robusti interventi di formazione e di strumenti di integrazione al reddito. Il governo ha deciso invece di abbassare i sussidi tanto per i "non occupabili", quanto per gli "occupabili". Chi è ritenuto "abile al lavoro" dovrà infatti seguire  ipotetici progetti di formazione che ancora non sono stati definiti percependo un'indennità mensile piuttosto bassa.

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Nessun accenno alla riforma dei centri per l'impiego o a impegni strutturali per occuparsi della formazione di chi è escluso da anni. E con l'abolizione del reddito, e l'assenza di un salario minimo di base, c'è il rischio che molti di loro accettino occupazioni con stipendi da fame, alimentando così ancora di più il fenomeno del lavoro povero. Quello che non viene (quasi) mai rilevato dalle statistiche ufficiali. Ma che viene vissuto quotidianamente sulla pelle da milioni di italiani. 

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