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Sabato, 27 Aprile 2024
Agguato premeditato / Bologna

 Perché Giovanni Padovani ha ucciso Alessandra Matteuzzi: "Il movente non è la gelosia"

I giudici della corte d'assise di Bologna hanno pubblicato le motivazioni della condanna all'ergastolo per l'ex calciatore di 28 anni, che nell'agosto del 2022 ha massacrato a martellate l'ex compagna: "Dietro l'omicidio c'è un profondo desiderio di vendetta"

Alessandra Matteuzzi, la donna di 56 anni picchiata a morte dall'ex fidanzato Giovanni Padovani la sera del 23 agosto 2022 a Bologna, non è stata uccisa per un attacco di gelosia, ma per un profondo desiderio di vendetta. È questo il movente del delitto secondo i giudici della corte d'assise di Bologna, che nelle motivazioni della condanna all'ergastolo per l'ex calciatore, descrivono cosa avrebbe spinto il 28enne ad accanirsi contro l'ex compagna: "È improprio attribuire l'omicidio a una insana gelosia dell'imputato, la quale, semmai, costituì il movente del delitto di atti persecutori, mentre l'omicidio fu motivato da un irresistibile desiderio di vendetta, uno tra i sentimenti più irragionevoli, eppure imperativi". Più che un "delitto d'amore", per i giudici si tratta di un "delitto d'onore".

Alessandra Matteuzzi uccisa "per vendetta"

Padovani non avrebbe agito in preda a un raptus omicida, ma anzi, secondo la corte il suo fu un agguato preparato a tavolino: "Dalle testimonianze raccolte emerge la prova dell'ideazione da parte dell'imputato di un proposito vendicativo, manifestato fin da giugno e nel luglio 2022 con estrema lucidità, come si può cogliere dal richiamo consapevole alle conseguenze di tale gesto ovvero alla possibilità di andare in carcere". Un dettaglio che rafforza l'aggravante della premeditazione: "Padovani l'ha aspettata sotto casa. Si è trattato di un vero e proprio agguato preparato nelle sue linee essenziali di azione. La condotta omicidiaria non è stata determinata da un mero moto d'impeto, ma è maturata e si è progressivamente radicata negli intenti dell'uomo, tanto da essere preannunciata nelle confidenze fatte a terzi e alla madre nelle annotazioni sul cellulare, e poi attuata secondo un piano predeterminato, comprensivo della scelta dell'arma da usare e del luogo in cui colpire". "Durante il processo - scrive ancora la corte - è emerso il carattere ossessivo-maniacale delle forme di controllo che l'imputato attuava nei confronti della compagna e come fosse stato spinto da una forza irresistibile, ingenerata da un sentimento di rancore e da un senso di frustrazione, a ritornare a Bologna per assassinarla".

Il comportamento di Padovani

I giudici hanno definito "una messa in scena" il comportamento di Padovani, dichiarato capace di intendere e di volere da una perizia psichiatrica, che durante il processo ha manfestato a più riprese atteggiamenti fuori dalle righe: "Le bizzarrie comportamentali dell'imputato, talora anche grossolanamente enfatizzate, seguite sovente da prese di posizione invece consapevoli e responsabili, soprattutto negli snodi decisivi del processo, le risultanze dei test, con risposte sbagliate anche alle domande più banali e infine l'asserzione di una tardiva insorgenza di sintomi psicotici, forniscano indicazioni che sembrano coniugarsi tra loro soltanto nella prospettiva di una intenzionale messa in scena dell'imputato". La corte ha di fatto confermato quanto concluso dalla perizia psichiatrica, secondo cui l'imputato aveva simulato quei comportamenti psicotici, anche nelle ultime dichiarazioni spontanee fornite in aula lo scorso 12 febbraio, giorno in cui è arrivata la condanna all'ergastolo.

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