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Lunedì, 29 Aprile 2024

Al cinema

Eva Elisabetta Zuccari

Giornalista

"Perfect Days" è il film perfetto da vedere per cominciare l'anno nuovo

Ogni rito religioso ha i suoi gesti precisi, che si ripetono sempre uguali, utili a scandire la spiritualità. Vale lo stesso per la vita di Hirayama, protagonista del film "Perfect Days": uomo di mezza età, di professione addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo, si alza al mattino, fa la barba, beve un caffè al distributore, poi sale in macchina e, sempre nello stesso punto della strada, fa partire una delle sue canzoni preferite. Lo fa riuscendo a dare sacralità alla routine di giornate che sembrano all'apparenza tutte uguali, ovvero restituendo all'inerzia della quotidianità il valore della vita vera. Il trucco è vedere ciò che gli altri non vedono: la poesia degli alberi riflessi sui palazzi, la gioia di una comitiva di bambini che attraversa la strada, il sole alto al mattino quando esce dalla porta di una casa ridotta (anzi, votata) all'essenziale. Lui, uomo qualunque abituato a passare inosservato, riesce a vederli.

Hyraiama coltiva la propria intimità, ovvero qualcosa che nella società narcisista di oggi è appiattito dall'urgenza di allestire una performance per lo sguardo altrui. Custodisce con cura ciò che solitamente viene schiacciato sotto i piedi di un mondo che corre, lo assapora in ogni "momento di vero godimento", per usare lo slogan di un famoso spot. L'effetto, per chi è seduto al cinema, è quello di una seduta di psicoterapia che ci spinge a ritrovare il gusto della vita di tutti i giorni, tramite sensazioni vertiginosamente catartiche. L'obiettivo è aiutarci a vedere il mondo con occhi nuovi, ricordarci che siamo - e soprattutto che dobbiamo imporci di essere - esseri viventi e non sopravviventi. È insomma il film giusto per cominciare il nuovo anno. 

Qui l'elenco di sale in cui vedere al cinema "Perfect Days"

L'ispirazione è arrivata dagli uomini d'affari giapponesi

L'ispirazione per la storia è arrivata dagli uomini d'affari giapponesi, ha spiegato il regista Wim Wenders: "Uomini pieni di dolore che conducono una vita stressante e bevono molto, si alzano presto e vivono lunghe ore di lavoro senza prendersi cura delle loro famiglie: sono molto attenti al dovere e non possiedono più la propria vita". Nella lingua giapponese però "esiste una parola per descrivere anche l'effetto del sole sul pavimento e del bosco che splende attraverso gli alberi". È "Komorebi". E proprio tornare a pronunciarla - ovvero tornare a vedere - può commuovere. 

Sembra retorica ma non lo è. Quello di Wenders è anzi un invito concreto a ritrovare una propria "solitudine appagata", formula con cui non s'intende una solitudine nel senso più fisico del termine, quanto invece la propria connessione al mondo. Preoccupati infatti come siamo a rincorrere la nostra routine, ci dimentichiamo che dovremmo invece andarle incontro, valorizzandola: godere del verde delle piante da annaffiare ogni mattina, perderci tra le pagine di un'altra storia, esplorare gli imprevisti dei nuovi incontri. Dice Wenders: "La routine non è monotonia, contiene libertà! La bellezza di tenere un ritmo regolare, all’apparenza identico, è che ti consente di apprezzare le micro-variazioni giornaliere: se impari a stare nel qui e ora scopri che non si tratta di una sequenza ripetuta, ma di una catena infinita di momenti unici, incontri unici. Se ogni sera vai a cena nel medesimo locale non è mai la stessa cosa. A me piace frequentare i soliti posti, dove ti presenti e, senza neppure ordinare, ti servono il tuo drink preferito".

In quest'epoca di "grandi dimissioni" insomma, Wenders sembra volerci ribadire che non siamo solo il posto in cui mettiamo il dovere, ma anche quello in cui mettiamo amore. Siamo anche il posto in cui non ci vede nessuno, seppure nell'apnea di un'epoca esibizionista: Hyraiama, ad esempio, ascolta ancora la musica delle cassette, diventando così un inconsapevole baluardo d'opposizione al presente, fatto di algoritmi capaci di omologarci persino nei nostri gusti culturali. Possiamo ancora ambire all'appagamento: "La terribile malattia dei tempi è la paura di perderci qualcosa, mentre la caratteristica principale di Hirayama è che non gli manca nulla", dice l'autore tedesco agli intossicati di Fomo (fear of missing out, la fobia di rimanere disconnessi, di perdersi qualcosa ndr). Siamo ancora analogici. 

Gli algoritmi hanno davvero peggiorato i nostri gusti culturali?

Palma d'Oro a Cannes

Hyraiama è forse utopia. È vero infatti che - come dice qualcuno - la "retorica delle piccole cose", facile lusinga al pubblico, non basta a se stessa: per apprezzare il corollario delle "piccole cose" diffuse intorno a noi, serve una struttura di "grandi cose" dentro di noi (quelle che ci regalano il nostro posto nel mondo, insomma: le relazioni, una professione, una qualsiasi altra missione che decidiamo di intestaci). Ma Hyraiama è un simbolo, come lo sono tutti i personaggi del film, come lo è ogni scena. Ogni dettaglio è perfettamente compiuto in se stesso, compatto in 120 minuti di film che non si lasciano contaminare dagli sbrodolamenti odierni del binge watching. Basta un volto incredibilmente espressivo, come quello dell'attore protagonista Kōji Yakusho, per far vincere la Palma d'oro per la migliore interpretazione a Cannes e per far scorrere su un'unica faccia tutta l'introspezione utile a raccontare questo mondo. 

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