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Lunedì, 29 Aprile 2024
Sanità allo sbando

Ricordate gli "angeli" del Covid?

Gli "eroi" delle corsie, quegli infermieri a cui la politica dedicava cerimonie e discorsi toccanti, sono pochi, sottopagati e spesso devono accollarsi le carenze del sistema

Una delle grandi criticità del Sistema Sanitario Nazionale, riguarda la gestione del comparto infermieristico. Gli "angeli del Covid", finita l’emergenza pandemica, sono tornati nell’ombra e a dover affrontare gli atavici problemi che investono la loro categoria. Stefano Barone, dirigente Nazionale Nursind, il sindacato delle professioni infermieristiche, racconta a Today.it la trincea delle corsie, tra subappalti, salari tra i più bassi d’Europa e aggressioni.

Voi infermieri, volendo azzardare una metafora, siete un po' l'ossatura della sanità, quello che tiene in piedi il corpo, ma in questo momento queste ossa sono un po' deboli o sbaglio?

"In effetti potremmo dire di avere un’osteoporosi. Partiamo da un primo dato: siamo sempre meno. E siamo sempre meno perché subiamo ancora il blocco del turnover del 2012, che ha fatto sì che non ci fossero nuove entrate e che aumentasse anche - dato da non sottovalutare - l’età media, che è molto alta nella nostra categoria".

Qual è l’età media? 


"Si aggira intorno ai 53-54 anni. Confidiamo che nei prossimi anni si abbassi un po’, il blocco del turnover è finito tra il 2017 e il 2018".

E poi è arrivata la pandemia.

"Esatto, la Pandemia ha messo sicuramente in risalto l’estrema importanza della figura infermieristica nel Sistema Sanitario Nazionale, ma ha fatto anche emergere le grandi le difficoltà professionali e di responsabilità a cui è sottoposta; dei rischi che la categoria si vede caricare sulle spalle da tre anni, perché il Covid esiste ancora, anche se non se ne parla più. La nostra categoria si è sobbarcata tutta quella che è stata la riorganizzazione di un sistema, perché il Covid ha cambiato la gestione dell'assistenza. Abbiamo visto quanto è stato importante andare nelle case dei pazienti e non farli venire in ospedale. Abbiamo visto la necessità di imporre dei percorsi tali da evitare di contagiare sia altri pazienti, sia noi stessi, sia i nostri familiari a casa; con tutte le difficoltà che ne sono derivate. Ricordo che nel 2020, in tante aziende, ci siamo visti negare persino le mascherine perché sembrava che non servissero. E poi invece sono state lo strumento che ci ha salvato a tutti i livelli dal contagio".

Eravate diventati in nostri “angeli”, eppure in molti hanno lasciato.

"Appena si è abbassata la guardia, tutto quello che avevamo fatto non ci è stato riconosciuto e siamo tornati nell’ombra. E sì, molti colleghi hanno deciso di fare altro, perché in questa realtà che noi viviamo abbiamo un mancato di riconoscimento sia sotto il punto di vista economico che di avanzamento professionale. Le regole della professione sono ferme al secolo scorso, quindi l'infermiere ha una seria difficoltà nello sviluppo di una carriera clinico professionale, anche se nell'ultimo contratto, per la prima volta, siamo riusciti a ottenere che ci venissero riconosciuti i master, titoli che i colleghi avevano acquisito negli anni e che fino ad ora non contavano nulla".

Torniamo all’osteoporosi. Per combatterla si è usata una medicina: i subappalti alle cooperative.

"È un discorso che rientra in quello molto più ampio dell’attrattività della nostra professione. In molti si ritrovano impiegati attraverso cooperative che li sottopagano. È un sistema che noi abbiamo sempre contestato e che ovviamente si verifica, in particolar modo, in quelle situazioni in cui c’è forte carenza di personale. Una carenza di personale che tutte le aziende denunciano e che è confermata da quello che ci raccontano ogni giorno i colleghi, spesso costretti a fare doppi turni per l’assenza di un cambio al turno successivo. Invece di ricorrere ai subappalti alle cooperative, sarebbe stato più sensato e logico, da parte delle amministrazioni, assumere direttamente nuovo personale. Le cooperative nel tempo hanno creato problemi anche all’interno delle strutture, come al Policlinico Umberto I di Roma, dove una cooperativa aveva vinto dei lotti scalzando il personale che era lì da tanti anni. E oggi la Regione Lazio, che ci dice che tra i suoi obiettivi ci sono le internalizzazioni, fa uscire quel personale - che intanto si era anche formato - ma non ha quello per rimpiazzarlo. In sostanza, gli appalti alle cooperative, ovvero la novità di questi ultimi anni, non hanno portato un risparmio dei costi di gestione delle aziende e quindi delle sanità regionali in toto e in più hanno umiliato la professione, sottopagando gli infermieri".

Rispetto al personale di queste cooperative, oltre alla questione del gap salariale, avete anche verificato carenze nel servizio?

"Sotto pandemia, il personale che veniva gestito dalle cooperative saltava da una struttura all’altra seguendo quelle che erano le esigenze delle aziende esterne, ovviamente non rispettando l'orario massimo di lavoro imposto per legge e il riposo che deve essere garantito. E dirò di più: l’inserimento degli appalti delle cooperative all’interno delle aziende ospedaliere ha prodotto anche delle discriminazioni".

Che tipo di discriminazioni?

"Oltre alla questione degli stipendi, gli infermieri interni alle strutture hanno un rapporto diretto con l’amministrazione, quindi godono di un tipo di trattamento privilegiato. E questo ha prodotto infermieri di serie A e infermieri di serie B, spesso meno preparati perché - diciamo anche questo - il personale che viene assunto dal pubblico ha fatto un concorso, ha superato delle prove specifiche e ha mostrato dei titoli; quello delle aziende che subappaltano è sicuramente meno controllato. Soprattutto nei periodi di maggior carenza di personale potrebbero mandare chiunque, non c’è nessuno che va a controllare, bisogna fidarsi di ciò che dice la cooperativa che ha il compito di controllare i titoli e le capacità delle persone che manda in corsia".

E quindi il malato rischia di trovarsi l’infermiere di serie B. E magari anche qualcuno che si è presentato in una cooperativa millantando titoli che non ha?

"È successo più di una volta. L’amministrazione non controlla il personale che viene inviato da queste aziende, ma come ho detto si affida a loro anche nei controlli. La discriminazione c’è anche per questo: il del personale interno si sa tutto, se ne conosce il percorso formativo e di conseguenza le capacità; di chi arriva da fuori non si sa nulla".

Veniamo al problema dei problemi. Quanto guadagna un infermiere?

"Un infermiere quando viene assunto prende 1500 euro per turni h24; 1600 euro con i festivi: siamo tra i meno pagati in Europa. L’avanzamento di carriera con il nuovo contratto prevede degli scatti ogni tre anni, sulla base di quelle che sono le risorse che ogni azienda ha a disposizione e ovviamente sulla base degli aumenti di diritto".

E questo contribuisce al calo delle cosiddette "vocazioni": c’è stata una forte flessione delle iscrizioni ai corsi di laurea in infermieristica.

"Facciamo un esempio pratico: un infermiere che esce dall’università deve iscriversi all'ordine, pagarsi un'assicurazione, fare dei corsi di aggiornamento. E poi magari si ritrova la raccomandata dell'azienda per la denuncia di un paziente. I ragazzi che vengono a sapere tutto questo ovviamente decidono di fare altro. Non parliamo di missione, per carità; la nostra è una professione, per quanto ci possa piacere: ma poi alla fine ma molti ragazzi tirano le somme e preferiscono rinunciare perché i conti non tornano".

Proviamo a fare un raffronto con l’estero. Sa di quegli infermieri che emigrano in Svizzera perché si guadagna molto di più?

"Noi abbiamo visto che gli infermieri che decidono di andare oltre confine lo fanno sia per un discorso economico, come può essere nel caso della Svizzera, dove arrivano ad avere 2.500 euro di stipendio se non di più, sia professionale, come nel caso di chi emigra per andare a lavorare in aziende anglosassoni in cui la categoria svolge mansioni decisamente superiori. Si pensi che negli USA un infermiere anestesista specializzato arriva a guadagnare anche 120 mila dollari l’anno. In pratica chi ha conseguito dei master, emigrando all’estero, ha un riconoscimento sia a livello economico che di mansioni".

Quanto la questione del demansionamento della vostra categoria rallenta tutto, a cominciare dal pronto soccorso?

"Se l’infermiere è un factotum, perché non ha alternative, ovviamente il sistema si rallenta. Dovremmo dedicarci ad un'assistenza più di qualità, perché l’involuzione che abbiamo subito negli anni è proprio quella di essere costretti a offrire un'assistenza meno di qualità e più di quantità, per cercare di rispondere tutte le richieste che ci sono state fatte. Il caso del Pronto Soccorso è forse uno degli ambiti in cui viene riconosciuta un po’ di più la professionalità infermieristica: l'infermiere è la prima figura con cui si viene a contatto, al Triage: è lì che si fa la prima valutazione. Poi però accade che l’infermiere debba anche portare il paziente in reparto perché magari manca l’ausiliario, o debba occuparsi delle cure igieniche, e questo lo costringe a lasciare scoperta la posizione. E questo avviene in particolare modo nelle degenze, dove l’infermiere deve fare tutto e non ha la possibilità di svolgere educazione sanitaria: una competenza che ci riguarda, che richiede di comunicare col paziente, informare i suoi parenti, anche di quello che dovranno fare eventualmente a domicilio. Si pensa che questi aspetti non abbiano una rilevanza importante nel ciclo dell’assistenza, ma sono fondamentali".

Il vostro è anche un mestiere pericoloso, perché oltre a dovervi difendere da organismi microscopici come il Covid a volte dovete difendervi anche da altri esseri umani.

"Quella delle aggressioni è una piaga che riguarda sia noi che i medici, come nel caso dell'immunologo Francesco Le Foche, che rischia di perdere la vista a un occhio. In quel caso l’aggressore è stato un paziente che ha attribuito delle responsabilità al professionista, mentre negli ospedali la maggior parte delle aggressioni sono dovute ad alterazioni dei pazienti dovute ad alcol o droga, oppure si tratta di malati psichiatrici. In alcuni casi sono state conseguenza del disservizio e i pazienti o i loro parenti se la sono presa con il primo che gli è capitato sotto mano. Il fenomeno si è attenuato durante il Covid, ma ora i casi tornano ad aumentare. Anche questo è figlio del sovraffollamento delle strutture e dei carichi di lavoro eccessivi a cui siamo sottoposti. Noi chiediamo che vengano aumentati i posti di Polizia negli ospedali, che possono fungere da deterrente e soprattutto placare sul nascere situazioni potenzialmente pericolose".

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