rotate-mobile
Martedì, 30 Aprile 2024
Il progetto

Così si nasconde la Co2 sotto l'Adriatico per salvare il clima (e si guadagnano 30 miliardi)

Eni e Snam cominceranno a pompare negli ex giacimenti di gas l'anidride carbonica catturata dagli insediamenti industriali europei. L'obiettivo è smaltire 16 milioni di tonnellate di Co2. Previsti 17mila posti di lavoro. Le incognite: dai costi all'impatto ambientale

La ricetta italiana per combattere, e fare affari, con il problema del riscaldamento globale si nasconde nel fondo dell'Adriatico. Si chiama "Callisto", un nome che non ha nulla a che fare con la mitologia greca, ma che è l'acronimo di "Carbon Liquefaction Transportation and Storage". È il progetto con cui Eni e Snam puntano a utilizzare i giacimenti esauriti di gas al largo di Ravenna per stoccare anidride carbonica.

Realizzato in collaborazione con la francese Air Liquide, il piano è stato inserito nei "Progetti di interesse comune" dell'Unione Europea e punta a far diventare l'Italia un vero e proprio hub mediterraneo dello stoccaggio della CO2. 

Il nastro di partenza dovrebbe essere tagliato a breve per la fase sperimentale con uno stoccaggio iniziale di appena 25mila tonnellate l'anno. Ma entro il 2030 l'anidride carbonica stoccata dovrebbe ammontare a 4 milioni di tonnellate, e l'obiettivo è arrivare a circa 16 milioni. Per fare un calcolo (molto approssimativo) per smaltire la stessa quantità di CO2 dovremmo piantare dai 160 ai 640 milioni di alberi. I fondi del Pnrr ne prevedevano altri 6,6 milioni e non è finita benissimo. 

"Le rinnovabili non bastano: servono idrogeno e stoccaggio di Co2 per vincere la sfida del clima"

Ma, paragoni a parte, anche l'ultimo rapporto Ipcc (il gruppo Onu che si occupa del cambiamento climatico) inserisce lo stoccaggio del carbonio tra le tecnologie indispensabili per contrastare il global warming. E per una nazione che affronta una crisi industriale profonda potrebbe costituire un importante volano di crescita. Tutto bene quindi? In parte. 

Cosa è come funziona lo stoccaggio del carbonio

Il primo esperimento di stoccaggio di anidride carbonica è stato portato avanti nel Mare del Nord, in Norvegia, con l'impianto di Sleipner e poi con quello di Snøhvit. L'azienda che l'ha realizzato è la StatoilHydro che estrae gas con una buona percentuale di anidride carbonica. L'idea era quella di stoccare la C02 in fondo al mare e migliorare così la redditività dell'impianto, evitando così di pagare la "carbon tax" vigente in Norvegia. 

CCS_PROGETTI_eni

Il processo si articola in due fasi. In primis l'anidride carbonica prodotta dalle aziende deve essere intercettata, isolata e liquefatta attraverso processi fisico/chimici. In secondo luogo deve essere stoccata. La soluzione che si è trovata è di "seppellirla", pompandola a svariati metri di profondità nei vecchi giacimenti esausti di petrolio e gas.

"Quando si utilizzano combustibili fossili si produce inevitabilmente C02. Oggi però può essere separata dagli altri gas di combustione a bassa temperatura e poi liquefatta, per poi essere trasportata e iniettata nel sottosuolo. È l'unico modo per conciliare l'utilizzo di queste fonti con l'abbattimento dei gas serra" spiega a Today.it Ennio Macchi professore emerito e fondatore e del gruppo Gecos, del Politecnico di Milano, che da anni studia queste tecnologie ed è presente in gran parte dei progetti europei sul tema.  

Ironia della sorte, anche in questo caso ad avere un vantaggio competitivo sono ancora le compagnie che continuano a fare affari con gli idrocarburi. Nel caso della multinazionale italiana, ad esempio, è fondamentale il know how accumulato nello stoccaggio del gas naturale. Ma i problemi non sono pochi.  

Il problema dei costi e quello della sicurezza

Il primo è sicuramente economico. Separare l'anidride carbonica e poi pomparla liquefatta negli ex giacimenti di idrocarburi presenta costi al momento elevati. Secondo la IEA (l'Agenzia Internazionale per l'Energia), il costo di un ciclo completo di separazione e stoccaggio della CO2 negli impianti attuali varia da 124 a 317 euro/tonnellata di CO2.  Parallelamente un "carbon credit", ovvero un credito per emettere più anidride carbonica di quanto stabilito dalle normative, in Europa è quotato sugli 85 euro per tonnellata. La redditività degli investimenti di questa tecnologia è quindi direttamente proporzionale ai "costi" delle emissioni in Italia e nel mondo. La scommessa è che il prezzo delle emissioni continui a salire rendendo sempre meno convenienti gli impianti non dotati di tecnologie di sequestro, mentre quello dello stoccaggio della Co2 diminuisca grazie alle economie di scala e al progresso delle tecnologie. Questa scommessa potrebbe generare, secondo Eni, 30 miliardi di Euro di valore aggiunto tra il 2026 e il 2050 e dare lavoro a oltre 17mila persone. 

Ma attualmente i costi sono ancora un problema. "Se oggi una centrale termoelettrica vuole sequestrare anidride carbonica ha due tipi di penalizzazione: il primo è che il rendimento diminuisce, il secondo è che per realizzare questo processo bisogna modificare l’impianto, e infine c’è il costo della riniezione della C02. Tutte le previsioni però sono ottimiste: è l’unica tecnologia che permetterà in futuro di utilizzare ancora i combustibili fossili che sono ancora essenziali per alcuni settori industriali" osserva Ennio Macchi. 

COSTO_MEDIO_CSS_report_eni

Il secondo ordine di problemi è connesso sulla sicurezza geologica di questi impianti e al pericolo di eventuale "fughe" di gas dal sottosuolo. "La Co2 è pericolosa per l'uomo solo in alte concentrazioni e non esistono grossi problemi in tal senso. Dal punto di vista geologico la preoccupazione è che, iniettando gas a una pressione elevata nel sottosuolo possano crearsi situazioni di sismicità. In realtà gli studi ci confortano e abbiamo anche  l'esempio del metano stoccato che non dà problemi - spiega Macchi - a ogni modo, anche per queste ragioni, questi insediamenti vengono costruiti lontano dalle coste".

Il "niet" degli ambientalisti 

A questo tipo di tecnologia si oppone gran parte del mondo ambientalista per il quale lo stoccaggio della Co2 è una foglia di fico per le grandi multinazionali del settore: "Stiamo assistendo alla 'linea Maginot' dell'industria del gas e del petrolio - spiega a Today.it, Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace - in realtà il 70 per cento di questi progetti servono solo a estrarre più petrolio e gas, grazie a quella tecnica chiamata 'Enhanced oil recovery', per il resto parliamo solo di investimenti a perdere sia per costi che per scarsa efficienza. Servono solo a fare credere all'opinione pubblica che ci si sta orientando verso la transizione, quando in realtà si continua a investire in energie fossili”. 

Greenpeace_blitz_eur

Il problema è che esistono però molte aziende, come cementifici, acciaierie e gran parte della chimica, in cui l'abbattimento delle emissioni presenta numerose problematiche. Le alte temperature che questi impianti necessitano rendono infatti ancora non conveniente l'utilizzo dell'energia elettrica.

"Così le big company seppelliscono la Co2 sotto al tappeto per continuare a inquinare"

L'evidenza è poi che solo per stoccare tutta la Co2 che produciamo in un anno, ci vorrebbero almeno 20 giacimenti come quello progettato a largo di Ravenna. E l'impressione è che, oltre ad accelerare sull'inevitabile transizione, per conciliare i nostri standard di vita attuali con il cambiamento bisognerà investire in tecnologia. L'industria e lo sviluppo di domani dipenderanno anche dalla buona riuscita di questa scommessa. 

Sullo stesso argomento

In Evidenza

Potrebbe interessarti

Today è in caricamento