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Venerdì, 26 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Apple e Milano Città Clone

Alcuni anni fa il centro studi progressista britannico New Economics coniava il neologismo «clone town» a indicare la tendenza evidente di tante riqualificazioni urbane, pur fortemente sostenute dai governi locali di tutto il mondo, in cui si ripeteva esattamente il medesimo schema. Accadeva cioè che di fronte all'innegabile degrado delle tradizionali arterie di passeggio commerciale, sia nei centri storici che sui percorsi altrettanto classici verso le stazioni o analoghi poli di attrazione, si presentassero come salvatori della patria gruppi imprenditoriali armati di uno strumento chiavi in mano, ovvero il «progetto integrato». Con la promessa di rivitalizzare quei quartieri, si ottenevano varianti urbanistiche, agevolazioni fiscali, e la possibilità di realizzare in collaborazione con grandi operatori economici qualcosa di simile a un centro commerciale all'aria aperta. Addirittura in alcuni casi era proprio con nome e cognome un grande operatore di centri commerciali suburbani, a sbarcare in centro, e mettere direttamente il proprio marchio su trasformazioni a volte non urbanisticamente troppo vistose, ma certo radicali per la città. Le vie che subivano questo pesante maquillage economico, di fatto, erano poi difficili da distinguere, sia l'una dall'altra (che si trovassero a Catania o a Singapore) sia dal loro corrispettivo extraurbano, quello stesso scatolone ad aria condizionata che aveva determinato il declino della via commerciale tradizionale.

Milano, città nel bene e nel male da sempre immersa nei flussi della globalizzazione, difficilmente poteva sfuggire anche a questa tendenza della «clone town», che si manifesta ormai da diversi decenni in varie zone della città, con vie e piazza su cui si allineano in bell'ordine marchi e vetrine che fanno confondere il visitatore, specie quando con l'imbrunire e l'accendersi delle insegne al neon si affievoliscono anche i segnali architettonici che dovrebbero in qualche modo marchiare il territorio. Esempio classico è quello «shopping mall» esteso da Piazza del Duomo a San Babila, articolato sull'asse di via Vittorio Emanuele e profonde fasce laterali: basta scorrere un elenco delle insegne a capire il senso di questa clonazione, di questa logica da porto franco globale. Oggi all'elenco, come quasi si poteva immaginare senza pensarci troppo, si aggiunge anche Apple con un suo negozio ufficiale, classicamente progettato dall'archistar globale di turno, e altrettanto classicamente a sostituire una ex attività simbolo dei centri città novecenteschi come una sala cinematografica. Non a caso la discussione, anche aspra e polemica, fra i critici di questo genere di trasformazioni e chi invece è tendenzialmente favorevole all'insediamento di attività nuove di alta qualità, si è focalizzata su due punti: la perdita di identità per il progetto «clone», e la banalizzazione dell'ennesimo negozio a fronte di un nodo di cultura come un cinema.

Tutto vero, e tutto in parte sottoscrivibile. Il meccanismo secondo cui un remoto consiglio di amministrazione decide di affidare a un altrettanto remota squadra di progettisti ed esecutori una trasformazione urbana, è quanto più «clone town» si possa immaginare, esattamente identico, nel suo rapporto gerarchico, al meccanismo usato per decenni nel suburbio, dove lo scatolone del centro commerciale atterrava di fianco al campanile come un'astronave falsamente amica, drenando poi energie fino a prosciugare la vitalità del nucleo. C'è da dire però che, nel caso di Apple, e a Milano, non pare ci sia nulla di eccezionale: un'altra sostituzione, e un altro progetto standardizzato tra cento, tra mille altri. Si potrebbe anzi chiedere a tutti gli «appassionati di cinema» che oggi piangono la scomparsa della sala, quanta parte del proprio reddito abbiano mai speso lì dentro, esattamente come accade quando chiude il vecchio calzolaio o bottega di falegname, e tutti sospirano commossi, ma ben consapevoli di essersi rivolti altrove per quei servizi, e da parecchi anni. Ciò premesso, c'è un'altra osservazione da fare, ed è l'evidenza dei processi di appropriazione strisciante, e per così dire di colonizzazione sociale. Accade con anziani e ragazzini nei centri scatolone extraurbani, sta accadendo in certi nuovi quartieri «globalizzati» anche a Milano, invasi di giorno e di sera da una variopinta e mista folla che li tratta come se fossero (giustamente) cosa loro. E potrebbe accadere la stessa cosa anche col negozio Apple, e la piazza Liberty su cui si va ad affacciare: un'insegna qualsiasi a fare da punto di ritrovo e riferimento, dove vedersi, dove andare sia per motivi di servizio (un acquisto, una riparazione), come si faceva con la bottega del calzolaio o del ciclista. Se poi quel signore ha sede a Cupertino anziché a Cinisello Balsamo, potrebbe essere solo un particolare ininfluente, purché faccia il suo mestiere e non sia troppo invadente. Altrimenti lo facciamo fallire, perché non merita.

Su la Città Conquistatrice, un articolo della sezione Antologia ci spiega come il concetto di Città Clone sia addirittura stato inventato a metà '900 dal medesimo architetto inventore dello shopping mall moderno, Victor Gruen

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