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Lunedì, 29 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Dio, casa, famiglia, e poi? Ideologie del cohousing

Ogni tanto, magari per recuperare un momento di stanca vacanziera nel flusso di notizie, la stampa riscopre quello che oggi usando al solito un termine anglofono si chiama "cohousing". Ma se si scorrono gli articoli, anche allargandosi a livello internazionale e pur scoprendo qui e là spunti di un certo interesse, non si riesca a scacciare la sensazione che quel "cohousing" sia ormai una specie marchio disponibile, ad accomunare progetti diversissimi fra loro e anche piuttosto contrastanti, nelle dimensioni e nei contenuti. Solo guardando le forme fisiche dei contenitori di relazioni sociali, si parte da una specie di neo-corbusieriano falansterio terzo millennio, metropolitano, tecnologico, ma amico di ambiente e cooperazione.

Poi segue la versione più vicina alle comuni del tempo che fu, con le villette un po’ sgarrupate che citano i soliti classicissimi sobborghi giardino (i quali a loro volta citavano villaggi premoderni con spioventi e abbaini), gli orti, lo stanzone veranda per i giochi dei bambini. Ma pare che tutti i progetti, gruppi, realizzazioni di cohousing condividano comunque una certa aspirazione a un modello di abitare equilibrato: nei rapporti fra pubblico, privato, sociale; nel mescolare le esigenze del ricco e meno ricco, del giovane e del meno giovane; nel rapporto fra consumo di risorse ed esigenze di vita quotidiana. Certo che si tratta di equilibri assai diversi, salvo la vaga, comune ricerca di alternative allo stato di cose presente.

C’è la reazione alla città ingiusta che ci troviamo a vivere oggi, si dice, non del tutto a torto. Si potrebbe magari speranzosamente aggiungere: un progetto di città e società futura, che a partire dalle piccole esperienze di spazi e risorse condivisi si espanda a livello sociale sino a configurare un progetto politico maturo, aggregando via via altre forze. E questa è la lettura positiva. Realisticamente positiva, direi. Ma ce n’è un’altra, più pessimista: se si trattasse di un riflusso? Un riflusso più sottile e di lungo periodo rispetto a quello normalmente considerato dal buon senso diffuso e dai media, intendo. Si cerca nel privato-familiare-di pianerottolo ciò che non si trova (magari non si cerca neppure) nell’altra direzione, ovvero del quartiere, della città della complessità sociale.

Mentre invece poi basta leggere i medesimi giornali per riscoprire quel mondo di atri aeroportuali, rampe mobili di stazioni, corridoi di alberghi e centri congressi, cupole di centri commerciali e parchi a tema. Tutti, rigorosamente, privati, controllati da agenti della sicurezza, su cui sventola sempre il vessillo dell’onnipotente padrone di turno: non sarebbe il caso, allargando lo sguardo, iniziare ad abitare un po’ di più anche quei cosiddetti non-luoghi? Per fare politica non c’è solo la sorda e grigia stanza della sezione di partito, le fumose fantozziane sedute dominate da quei linguaggi desueti e spesso a doppio taglio. In altre parole, una volta, anche di fronte a manifestazioni meno arroganti di potere sulla spazio e le relazioni, si diceva "riprendiamoci la città", o lottiamo per il quartiere.

Adesso pare un’utopia pure la stanza da gioco in condominio, il mettersi d’accordo per un apolitica militare di respingimento oppure una più decente integrazione dei nuovi arrivati in fuga da qualche disastro ambientale o economico. E certo ragionare con un respiro spaziale un po’ più vasto di quello di un atrio per le cene condominiali, o di quel grosso pianerottolo che qualcuno chiama ancora "unità di abitazione", aiuterebbe. Esiste un secolo e passa di dibattito sul quartiere urbano, ad assisterci: usiamolo, invece di inventarci l’acqua calda.


Su La Città Conquistatrice una raccolta di saggi storici e articoli di attualità dedicati alla dimensione sociale e urbanistica del Quartiere 

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